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    “MOLTI SOLONI DI ALTRI PAESI, CHE HANNO CRITICATO L'ITALIA, DOVRANNO RIPENSARCI” - L’INFETTIVOLOGO GIOVANNI REZZA: “CRITICARE È FACILE MA VEDO CHE ALTRI PAESI STANNO COPIANDO LE NOSTRE SCELTE. DOVREMO SOLO COMPRENDERE COSA SUCCEDE NEL NORD EUROPA: IN SVEZIA NON CI SONO ANCORA PROBLEMI NELLE TERAPIE INTENSIVE. BISOGNA ASPETTARE: LA SVEZIA NON CONTA I CASI, NON FA LE DIAGNOSI E DUNQUE I POSITIVI SEMBRANO MENO DI QUELLI CHE SONO…”


     
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    M.Ev. per “il Messaggero”

     

    GIOVANNI REZZA GIOVANNI REZZA

    «A livello italiano per l'R0, per l'indicatore di trasmissibilità di Sars-CoV-2, siamo attorno all'1. Però va detto che varia da regione a regione. In particolare nel nord, dove i dati si sono consolidati, siamo anche un poco sotto a 1. Nel sud dobbiamo aspettare di avere conferme. Comunque, una cosa si può dire: molti soloni di altri paesi, che hanno criticato l'Italia, dovranno ripensarci. E molti ora ci stanno imitando».

     

    Il professor Giovanni Rezza è il direttore del Dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità. Questo valore di cui tanto si parla a che livello era prima del lockdown?

    «Attorno a 3. In alcuni regioni, come la Lombardia, probabilmente anche sopra il 3. Era molto alto. Significa che una persona infetta ne contagia altri tre. Tenendo conto che quasi tutti i cittadini sono suscettibili o lo erano, immaginiamoci quanto rapidamente si poteva diffondere il virus».

     

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    Ma se riaprissimo dall'oggi al domani il Paese quell'indice schizzerebbe velocemente ben al di sopra dell'1?

    «Certo che sì. Ci sono ancora purtroppo molte persone infette al nord Italia, ma non solo. Sono state le misure di distanziamento sociale ad abbassare l'R. Naturalmente se questa tendenza di rallentamento dell'epidemia continuerà si potrà pensare alla fase due, ma questo non vuole dire che immediatamente si potrebbero eliminare tutte le misure prese. Dovrà essere una fase due graduale, mirata, con altre misure, magari differenti, per non compromettere quanto fatto».

     

    Sta passando l'idea di un uso più massiccio delle mascherine. Inizialmente era stato detto, anche da parte dell'Organizzazione mondiale della Sanità, di non usarle.

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    «Sì, c'è un ripensamento. L'Oms aveva dato indicazioni diverse. Ma non era solo un problema dell'Italia, ma di tutte le nazioni occidentali. C'erano studi con risultati non univoci. Ora invece nuove ricerche sembrano suggerire un uso più costante delle mascherine. Quanto meno, si deve puntare a coprirsi la bocca. L'uso delle mascherine nei luoghi pubblici al chiuso può aiutare a ridurre la circolazione del coronavirus. Quelle con un livello di protezione maggiore vanno riservate al personale sanitario, per la popolazione possono andare bene quelle chirurgiche, ma anche un foulard, perché l'obiettivo dovrebbe essere di evitare che soggetti asintomatici spargano le droplets, le goccioline».

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    L'Italia è sulla strada giusta nel contrasto dell'epidemia?

    «Guardi, ad occhio e croce una cosa si può dire: mi viene da pensare che quelli che hanno criticato l'atteggiamento italiano ora ci debbano ripensare, qualche solone di Harvard o di altri paesi, ora dovà riflettere. Criticare è facile. Vedo che altri paesi stanno copiando molto le nostre scelte.

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    Dovremo solo comprendere cosa succede nel nord Europa: vedo ad esempio che in Svezia non ci sono ancora problemi nelle terapie intensive. Bisogna aspettare e capire: la Svezia non conta i casi, non fa le diagnosi e dunque i positivi sembrano meno di quelli che sono. E questo è logico. Perché non abbiano un numero alto di persone in terapia intensiva, andrà però studiato: o è ancora troppo presto, o ci sono altri fattori. Il virus, comunque, corre molto più rapidamente in paesi o metropoli con un'alta densità della popolazione».

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