Antonio Riello per Dagospia
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Matthew Barney, l’influente artista/regista americano nato nel 1967 a San Francisco, mancava sulla scena artistica londinese da diverso tempo, la sua ultima significativa presenza artistica in citta’ datava al 2007 (Serpentine Gallery). La Hayward Gallery ci offre finalmente l’occasione di una bella sbirciata sulle sue recenti attivita’. I curatori del progetto espositivo sono Cliff Lauson, Katie Guggenheim e Alyssa Bacon.
Barney, che qualcuno magari ricorda anche per la liaison amorosa con la cantante Björk (finita nel 2013), e’ stato sicuramente uno degli interpreti piu’ sofisticati della grande stagione artistica tenuta a battesimo dalla mostra Post Human (1992).
Allora il futuro era, in prevalenza, ancora pensato come un paniere colmo di opportunita’ e non come un insidioso vaso di Pandora. Le tecnologie di manipolazione genetica, i nuovi materiali della biotecnologia digitale (protesi & cyborg) e la chirurgia plastica avanzata sembravano sul punto di liberare il corpo umano dalle costrizioni imposte dalla Natura.
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I riferimenti di Barney sono naturalmente estetici ma anche medici, scientifici, cosmologici, ecologici, mitologici e naturalistici. Concepisce l’anatomia umana come un luogo di molteplici possibilita’ da sondare, esasperare e sfidare. Per lui lo sforzo fisico diventa azione artistica che sa (e puo’) modificare il corpo. E’ dotato di un grande senso dello “spettacolo”, sa bene insomma come catturare e intrattenere lo sguardo del pubblico.
Ama le atmosfere tardo barocche visivamente molto ricche. Un infaticabile spacciatore di sfarzi visivi che sono frutto di voluttuose performance, di oggetti curiosi e raffinati, di eleganti disegni e soprattutto di sontuosi filmati.
La sua fatica piu’ nota e’ il ciclo “Cremaster” (4, 1, 5, 2, 3 realizzati tra il 1994 e il 2002) che consiste in 5 spettacolari video di lunga durata corredati da una serie di oggetti (e pubblicazioni).
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Redoubt (2020) consiste in un lungometraggio (scritto, diretto e interpretato dall’artista) a cui e’ strettamente legato un cospicuo corollario di opere. Alla produzione hanno partecipato le due gallerie che rappresentano l’artista: Barbara Gladstone e Sadie Coles.
Il film e’ una complessa saga ambientata in una situazione quasi-Western (e’ stato girato interamente tra le foreste delle Sawtooth Mountains, nello stato dell’Idaho, dove l’artista ha passato la sua giovinezza). Il mito classico di Diana cacciatrice (liberamente tratto da Ovidio e qui molto ben rivisitato) corre in parallelo con la vicenda di un puntiglioso e silenzioso incisore che usa le tecniche di galvanostegia (a cui viene dato in effetti moltissimo spazio). Ad un certo punto le due storie si incrociano.
Armi da fuoco High Tech, tute mimetiche, danze tribali, misteriosi rituali, (noiosi) dettagli galvanoplastici, lupi, orsi, porcospini e cavalli, cieli stellati, numerologie cabalistiche, bunker della Guerra Fredda, foreste interminabili, sangue e morte. C’e’ davvero di tutto. Le scene di caccia (gli animali per fortuna non sono stati uccisi per davvero…) sono piuttosto violente e rappresentano i picchi emotivi di un racconto altrimenti, qui e la’, piuttosto ridondante.
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Cinematograficamente ricorda certe elaborate atmosfere di Peter Greenaway condite pero’ in salsa americana (l’ideologia della Natura di Henry David Thoreau e di Ralph Waldo Emerson e’ la vera protagonista).
A parte una spartana colonna sonora, in tutto il film non si sente una sola parola, solo versi di animali e vento. Forse e’ una visione anche troppo lunga (dura la bellezza di 2 ore e 14 minuti) per essere gustata in un solo momento con tutta l’attenzione che meriterebbe. L’accesso alla mostra da’ comunque facolta’ di poter rivedere con calma il film, per una sola volta, in streaming a casa (sulla piattaforma MUBI).
Il resto consiste in una serie di bellissimi e grandi tronchi d’albero (si tratta di tronchi carbonizzati provenienti dalla stessa foresta) interamente ricoperti di uno spesso e lucido strato di ottone o di rame. Uno e’ posto esternamente sulla terrazza della Hayward, gli altri 3 internamente. Indubbiamente delle affascinanti visioni botanico-metallurgiche, con un sapore quasi da fantascienza. Quasi dei prodotti di qualche oscura civilta’ aliena.
A questo punto l’unica cosa che si potrebbe aggiungere, con un certo orgoglio italiano, e’ che comunque quando si parla di alberi nell’Arte Contemporanea il pensiero non puo’ non rimbalzare automaticamente verso Giuseppe Penone che di alberi si occupa, con riconosciuta maestria, da decenni.
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I tronchi sono affiancati da una quarantina di opere (incisioni su rame) di piccole dimensioni appese alle pareti. Sono quelle che si vedono nel corso del film ripetutamente maneggiate dall’incisore (interpretato dallo stesso Barney).
Il rame con il suo caldo e caratteristico aspetto esercita una fascinazione ossessiva sull’artista che lo legge come un materiale particolarmente alchemico, prezioso e potente: e’ in ogni caso un metallo molto alla moda il cui costo, tra l’altro, sta raggiungendo ormai quello dell’argento.
La parte piu’ notevole di questi lavori sta comunque nelle cornici. Per Barney il particolare periferico vale tanto quanto il centro del bersaglio. Anzi si potrebbe dire che le raffinatissime cornici sono le vere opere, quello che c’e’ al loro interno sembra divenire semplicemente un mero accessorio.
Quasi a suggerire il paradosso: “le opere d’arte passano di moda con il cambiare del gusto, invece i loro “contenitori” (le cornici appunto) rimangono per sempre”.
riello
Mostra piuttosto impegnativa (soprattutto per cio’ che riguarda la proiezione), ma certo anche piena di stimoli e concetti intriganti. Matthew Barney riconferma ancora una volta il suo sguardo ammaliatore, coerente e particolarissimo di post-humanista.
MATTHEW BARNEY: REDOUBT
dal 19 Maggio al 25 Luglio 2021
The Hayward Gallery, Southbank Centre, Belvedere Road, Londra SE1 8XX
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