Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera"
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Il soprannome 'u Sparitu, condiviso con il fratello Giuseppe nelle latitanze degli anni Novanta, non promette niente di buono. Ma non c'è da dubitare che Rocco Barbaro, 56 anni, dopo la scarcerazione rispetti alla lettera le prescrizioni della sorveglianza speciale.
Poca cosa per uno che ha evitato anni di carcere. Anche perché contro quello che la Direzione distrettuale antimafia di Milano indicava al tempo della sua cattura, l'8 maggio 2017, «il vertice» della 'ndrangheta lombarda, non ci sono altre accuse.
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Barbaro, che per la procura era «il capo dei capi», è un uomo libero, benché battezzato alla 'ndrangheta con la dote del «vangelo» e nonostante sia considerato - dagli investigatori e dalla letteratura sul tema mafioso - il più importante esponente del ramo «Castanu» della cosca di Platì (Reggio Calabria).
Quella che, dopo la stagione dei rapimenti, è diventata la famiglia più importante negli assetti criminali di Lombardia e Piemonte. Un Cerbero con tre teste: una sulle pendici d'Aspromonte, l'altra tra Corsico e Buccinasco nel Milanese e la terza a Volpiano (Torino).
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Otto casati che affondano le loro radici nel matrimonio tra Francesco Barbaro (classe 1873) e Marianna Carbone (1877) con una storia che sembra uscita da una serie tv. Dai loro dieci figli discendono le otto 'ndrine che dominano dalla Calabria al Nord Italia, fino in Australia.
Una delle più importanti è quella dei «Castanu», dal soprannome del padre di Rocco, Francesco Barbaro, classe 1927 morto ergastolano a 91 anni. Nomi, discendenze e soprannomi non sono un feticcio. Ma linee di sangue che diventano potere e tragedie umane.
Come quella del brigadiere Antonino Marino, carabiniere di Platì ucciso nel '90 a Bovalino approfittando dei fuochi d'artificio alla festa del paese. Ad ucciderlo è stato proprio Ciccio Barbaro.
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Il giorno della cattura del figlio Rocco i carabinieri e i Cacciatori di Calabria hanno dedicato l'operazione che riportava dietro le sbarre uno «dei trenta latitanti più pericolosi d'Italia» proprio alla memoria del compianto collega.
A Milano i carabinieri e i magistrati della Dda gli davano la caccia per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Con il figlio Francesco e un nipote, queste le accuse, aveva comprato un bar a pochi metri dal Duomo, il «Vecchia Milano».
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È il 2012 e Barbaro è stato scarcerato dopo una condanna a 15 anni per narcotraffico. È affidato in prova a un gommista di Buccinasco. Anche se, per la procura, più che lavorare pensa ad altro. Poco tempo dopo i carabinieri eseguono l'operazione «Platino».
Nelle carte c'è un'intercettazione in cui viene definito da due affiliati «per regola» il «capo di tutti i capi, di quelli che fanno parte di queste parti». Lui capisce che è finito nel mirino e rivende il bar.
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Quando vanno ad arrestarlo nel 2016, Barbaro non c'è. Resta latitante per un anno e mezzo. La sua cattura a Platì viene salutata come una «vittoria dello Stato» contro la mafia. Le condanne però le fanno i processi. In primo grado prende 16 anni, in appello scendono a 13, in Cassazione l'accusa di mafia cade e resta l'intestazione fittizia.
L'appello bis va nello stesso solco. Barbaro sconta i pochi anni di condanna ed è libero. Per definirlo boss mafioso, secondo i giudici, serve l'attuale e operativo inserimento nella cosca al Nord.
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Nel maxi processo «Infinito» del 2010, preso forse troppo ad unico fondamento della presenza della 'ndrangheta in Lombardia, non si parla mai di Rocco Barbaro. E le sole condanne recenti per i Barbaro-Papalia riguardano affari di terra e mattoni.
Per i magistrati «non è mai sufficiente la verifica di una generica e non storicizzata appartenenza» al clan, ma «è necessario che la stessa trovi specifico riscontro operativo riguardo a un determinato assetto organizzativo e a quel determinato periodo».