Maurizio Crosetti per la Repubblica - Estratti
È ancora indomabile il sorriso del vecchio leone, in videochiamata da Yaoundé. Roger Milla, 72 anni, due Coppe d’Africa e una Legion d’Onore per i tanti anni trascorsi a giocare in Francia, 486 gol in carriera, simbolo assoluto e non solo sportivo del Camerun, considerato il più grande calciatore africano del Novecento, ci sorride dentro una sgargiante camicia bianca a pois neri. Fa ciao con la mano e ci mostra il muro esterno della sua casa, dove lui ancora corre con la divisa verde della nazionale.
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Roger, riconosciamo quell’immagine: sono i Mondiali di Italia ’90. Notti magiche… «Anche i giorni se è per questo, tutto lo era, tutto era magico! Segnai quattro gol anche se avevo già 38 anni: eh, io sono arrivato troppo tardi in Europa, ne avevo 25».
Vi eliminò l’Inghilterra nei quarti di finale, ai supplementari.
«Perdemmo 3-2 ingiustamente, ma fu come aprire la porta al calcio africano del futuro. Abbiamo cominciato noi, siamo stati la storia, poi ci hanno seguito il Ghana, il Senegal, il Marocco».
Lei era in campo anche contro l’Italia nel leggendario Mundial ’82: davvero c’erano ombre di combine su quella sfida?
«Io non mi accorsi di nulla di strano, la giocammo e la pareggiammo, tutto qui».
L’Africa vincerà mai un Mondiale?
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«Sì, prima o poi succederà. Però bisogna continuare a lavorare e decidere da noi il nostro destino, senza essere soltanto una terra dove andare a caccia dei giocatori più bravi. È finito il tempo delle colonie e della tratta dei neri. Del resto, chi si aspettava il Marocco in semifinale? Una squadra fortissima, che non finisce qui. L’Africa del calcio è una cosa seria».
Anche l’Arabia e il Qatar lo sono?
«No, e non dureranno. Il denaro non compra tutto».
Cos’è stato il suo Camerun nella storia del calcio?
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«Un simbolo di fiducia per un intero continente, la dimostrazione che niente è impossibile. Oggi, nessuno più si azzarderebbe a dire che i calciatori africani sono forti fisicamente ma non intelligenti: era una forma di razzismo».
(...) E poi l’ho detto, troppi soldi rovinano l’uomo: vedo giovani calciatori pieni di talento, anche qui in Africa, che però non hanno la fame che avevamo noi. Si arricchiscono presto e si perdono».
È vero che lei aiuta alcuni suoi ex compagni diventati poveri?
«Sì, e non soltanto in Camerun. Ai miei tempi si guadagnava poco, e quando si finiva di giocare non c’erano quasi mai prospettive. Io ho avuto la fortuna di farcela ed è giusto che aiuti chi non c’è riuscito.Molti hanno dato il cuore e la giovinezza allo sport e alla loro patria, e non possono essere lasciati soli, dimenticati. Eravamo e siamo fratelli».
Lei è diventato “ambasciatore itinerante del Camerun”: cosa significa?
«Sono a disposizione del Presidente della Repubblica per iniziative umanitarie, è un grande onore».
Ha anche fondato “Coeur d’Afrique”, un’associazione che si occupa di povertà.
«Cerchiamo di portare aiuto agli orfani, ai malati, ai disabili e alle donne sole. Abbiamo realizzato pozzi per l’acqua, finanziato programmi educativi e acquistato materiale scolastico. L’ Africa ha ancora bisogno di quasi tutto, però possiede risorse enormi soprattutto dal punto di vista umano, che poi è il più importante».
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È diventato un politico?
«No, non appartengo a nessun partito. Preferisco definirmi un patriota».
Le piace il calcio di oggi?
«Sì e no. Lo seguo, però vedo troppa individualità, anche se ci sono squadre bellissime come Real, City e Psg. Tuttavia, molti giocatori sono egoisti e sono diventati vere e proprie aziende. C’è freddezza e distanza dal pubblico, mentre il calcio dev’essere passione e partecipazione. Il Camerun ha fatto la storia perché, prima di tutto, era un formidabile collettivo».
Lei però era la stella assoluta: ancora oggi è il calciatore più anziano ad avere segnato nella fase finale di un mondiale.
«Accadde a Usa ’94: perdemmo 6-1 contro la Russia, però io feci gol a 42 anni e mezzo. Un primato che resiste da trent’anni e potrebbe durare ancora: è la prova che, a volte, si può combattere il tempo e che un atleta serio, disciplinato e scrupoloso può resistere a lungo».
La sua danza davanti alla bandierina, la “makossa”, fece epoca: che significato aveva?
«Era un modo per dire grazie alla gente e per farla contenta: è molto bello ballare tutti insieme, no? Quei movimenti furono una mia invenzione, non è vero che si richiamavano alla tradizione africana: veniva tutto da dentro.
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