Tommaso Pincio per “il Venerdì di Repubblica”
FLAIANO 2
Flaiano, Roma, l'estate. Sono questi i temi ricorrenti di un diario che ho tenuto per caso, anzi per una telefonata. È un giorno di inizio marzo - l'inizio marzo di un anno fa. Vago come mio solito per l'Esquilino, il rione in cui abito da tanto di quel tempo che mi sembra di esserci nato. Il telefono squilla e - nemmeno io so perché - rispondo. È un editore. Mi chiede se ho voglia di pensare qualcosa per una collana - in effetti gustosa - di guide letterarie, libri in cui la vita e l'opera di uno scrittore fanno da mappe ideali per i luoghi del mondo.
L'editore ha anche pensato a un paio di possibilità adatte a me. Autori americani, luoghi americani. Io ascolto, in attesa soltanto del momento buono per piazzare un no grazie, sono lusingato, grazie davvero ma no. E tuttavia, quando il momento arriva, anziché limitarmi a un cortese rifiuto, dico che su Flaiano e Roma qualcosa potrei scrivere. Lo dico d'istinto e senza ragione, senza avere mai pensato in vita mia a un libro su Flaiano e Roma.
tommaso pincio diario di un'estate marziana
Ma ormai il danno è fatto. Di lì a pochi giorni ricevo un contratto. Leggo la data di consegna e per un attimo mi chiedo cosa mi sia saltato in mente. Poi, siccome l'estate del 2022 è ancora lontana, firmo. È la mia natura: tutto mi sembra sempre lontanissimo.
Neanche ora che l'estate del 2022 mi sembra preistoria, neanche ora che ricorre il cinquantenario della morte di Flaiano, neanche ora che il libro è scritto - stento a crederlo ma è scritto, anche se ha preso la forma imprevista di un diario - neanche ora so spiegarmi la reazione di quel giorno.
L'ipotesi più ovvia è che lo amo, Flaiano. Ovvia e per nulla originale. C'è forse qualcuno che non lo ama? Solo poche settimane fa, in un'intervista apparsa sulle pagine di Repubblica, Franco Cordelli diceva che «Flaiano è stato tutto quello che avrei voluto essere». Qualcosa di simile può valere per i tanti che sono affetti da quella che Giovanni Russo chiamava flaianite, ovvero la tendenza a citare o attribuire, non di rado a sproposito, aforismi e arguzie dello scrittore.
william klein ragazza con i capelli lunghi davanti a un tram, 1956
Vale però soprattutto per chi non si ferma alle sue battute e ne conosce i lati meno appariscenti, quel suo disincanto verso gli uomini, disincanto che spesso lo immalinconiva ma senza renderlo un cinico. E poi il rifiuto di tutto ciò che odorasse di trito e banale. Per non parlare dell'insicurezza cronica dovuta probabilmente al fatto di essere l'ultimo di nove figli, venuto al mondo quando nessuno lo aspettava più, «a tavola ormai sparecchiata, alla frutta».
Un'insicurezza che è stata la sua fortuna e la sua condanna. Fortuna perché ha fatto di lui uno scrittore dalla lingua attenta e mai ostentata, tra le più limpide e belle del Novecento.
roma vista da william klein
Condanna perché la cronica insoddisfazione lo ha portato a diventare uno scrittore controvoglia, a disperdersi in tanti rivoli, tra articoli racconti sceneggiature, a preferire la forma breve al romanzo, a non identificarsi fino in fondo con la sua vocazione, come diceva Fellini, che gli rimproverava anche di essere pigro, di scrivere soltanto quando era costretto, quando aveva bisogno di soldi.
La presunta pigrizia è un tratto che sembra peraltro accomunarlo alla sua città di elezione. «Nulla è più curioso della assoluta repugnanza del romano per il lavoro» osservava Massimo d'Azeglio da bravo torinese operoso. Ennio Flaiano veniva però da Pescara e gli abruzzesi conoscono una sola morale, il lavoro.
plinio de martiis baracche nelle rovine , 1951
A Roma ci arrivò dodicenne, nel giorno della marcia su Roma, un giorno funesto e piovoso che gli lasciò addosso un senso di umidità e una tristezza smisurata alla vista della «folla spenta» dei romani che applaudivano i marciatori, dei negozianti che cinicamente già si adattavano ai tempi esponendo piccoli busti di Mussolini o profilattici marca Fascio.
Diversa la Roma del dopoguerra in cui visse da adulto, una città presa dall'euforia nonostante le macerie.
Quando pensiamo all'Italia riemersa dall'incubo del fascismo, le prime immagini che vengono alla mente sono quelle simbolo del miracolo economico, le automobili che cominciano a intasare strade e piazze prima deserte. Dimentichiamo però che il primo vero boom fu la stampa, la quantità impressionante di giornali e rotocalchi che invase le edicole.
Un boom che fece di Roma la capitale dei fotografi, dei fotoreporter, dei paparazzi. Alcuni venivano anche da lontano, come William Klein che arrivò dagli Stati Uniti per collaborare con Fellini sul set delle Notti di Cabiria e si ritrovò a girovagare per Roma, a scattare foto accompagnato da Pasolini, Moravia e lo stesso Flaiano.
flaiano
Erano ovviamente anche gli anni del cinema, della Hollywood sul Tevere, della dolce vita e di via Veneto, la strada in cui le persone sembravano - e in fondo erano - bagnanti, tanto che le conversazioni assumevano un tono barocco e scherzoso, balneare perfino.
«Manca che ci si spruzzi o che si giochi col pallone» dice Flaiano, che racconta di averci trovato perfino una conchiglia, in via Veneto, al termine di una passeggiata notturna.
Non per niente l'estate era la sua stagione prediletta:
plinio de martiis baracche roma 1951
«L'autunno la ricorda, l'inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla». Superfluo aggiungere che l'estate era per lui una disposizione dell'anima, prima ancora che una stagione astronomica. La stagione del malinconico che non vuole arrendersi alla propria natura e si ostina a credere nell'esistenza della felicità. La stagione di chi a Roma si è sentito sempre un po' straniero anche dopo averci passato una vita intera.
Uno straniero come il protagonista del suo racconto più noto, Un marziano a Roma, comica e triste parabola di un extraterrestre che scende in città con la sua astronave e viene accolto con tutti i trionfi ma solo per poco, perché «dopo sei mesi finisce come me e come te».
flaiano fellini anita ekberg
Finire come me e come te, per Flaiano, voleva dire misurarsi con un luogo che fa perdere ogni fede in se stessi, misurarsi con Roma cioè, «con l'indifferenza delle sue fontane, delle sue donne, delle sue mura». Ma se è così, perché restiamo? Per insicurezza? Per abitudine? O per paura di ciò che ci aspetterebbe qualora dovessimo ripensarci e tornare?
flaiano
Scrive ancora Flaiano: «So di persone che, allontanatesi per sempre, ci tornarono pentite, dopo anni, e trovarono gli amici al caffè che non s' erano accorti di niente. A un tale, ch' era stato dieci anni in Cina, dissero: "Hai cambiato caffè?"». Rido sempre fino alle lacrime, quando leggo del tale tornato dall'Oriente. Ma quanto fa male riderne. Che non ci sia proprio questo all'origine del mio Diario di un'estate marziana: il male di ridere?
Corriere della Sera - Flaiano e la mezza pera di Einaudi FLAIANO 3 masolino e susi cecchi d'amico con flaiano busto di ennio flaiano flaiano flaiano fellini flaiano Flaiano Fellini Ekberg 1960 un marziano a roma di ennio flaiano