L'immagine qui sopra è un fotomontaggio per la copertina de "L'espresso"
Fabio Martini per “la Stampa”
DUELLO MARINO E ALEMANNO SU SKYTG
Sembra il plot di un romanzo criminale, la versione casareccia delle storie oblique che negli Anni Venti segnarono l’amministrazione di alcune città americane. Ma Roma si era persa ben prima dell’indagine della procura: già da anni la Capitale è una città senza una guida pensante.
Non è un modello per il resto del Paese. Sempre pronta a tamponare, o ad inseguire, l’ultimo spontaneismo. Dei «tassinari». Dei vigili urbani. Degli occupanti abusivi, quelli di necessità, ma anche quelli di «professione». Persino degli automobilisti: Roma è la città con più macchine e più motorini d’Europa: non è una colpa, ma qualcosa vorrà dire.
Una capitale con una classe dirigente incapace di badare a se stessa: ormai da diversi anni la dissennata gestione clientelare, a piè di lista, delle casse comunali, ha indotto il Campidoglio a batter cassa a getto continuo, chiedendo aiuto agli altri italiani: negli ultimi cinque anni quattro miliardi hanno tamponato antiche falle, senza poter offrire servizi più efficienti. Per i romani. Ma anche all’altezza del suo ruolo di capitale di tutti gli italiani.
VELTRONI SINDACO
Certo, Roma non è mai stata amatissima dal resto del Paese e ora, se l’impianto accusatorio della procura dovesse trovare ulteriori conferme, potrebbero riprender fiato afflati antipatizzanti sempre pronti a risorgere. L’invettiva, a inizio Novecento, di una personalità come Giovanni Papini («Roma è sempre stata una mantenuta», «città brigantesca e saccheggiatrice») aveva fatto strada, era stata rilanciata sessanta anni dopo da un intellettuale di sinistra come Alberto Moravia: «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?».
Alberto Moravia e Carmen llera
Un umore di fondo che negli ultimi anni, persino nella propaganda leghista della «Roma ladrona», si era un po’ spento. Anche perché lo spettro dell’indignazione, a Torino come a Siracusa, si è allargato, comprendendo tutta la casta, senza distinzioni geografiche.
A prescindere dagli sviluppi dell’indagine giudiziaria, la capitale è chiamata ora a fare i conti con se stessa. Col suo ruolo. Con la sua missione. Persino nelle stagioni meno felici della storia italiana, Roma ha emanato un richiamo, un fascino, seppur controverso. Qualche anno fa il comunista Roberto Bentivegna, uno degli autori dell’attentato di via Rasella, ammise: «Il richiamo ai colli fatali non poteva non colpire la fantasia di un ragazzo».
ALBERTO ARBASINO
Naturalmente ogni stagione coltiva retoriche e missioni diverse. La destra, che ha guidato Roma 65 anni dopo la caduta del fascismo, ha già dimostrato di non essere all’altezza neppure della «sua» tradizione: la dissipazione dei soldi pubblici e la colonizzazione della aziende partecipate da parte della amministrazione Alemanno sono diventati proverbiali e prematuramente appartengono già al giudizio storico.
arbasino legge il suo libro
Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dimostrato di essere uomo di forti principii, ma privo di quella «cattiveria» e di quel «tocco» politico indispensabili quando si sfidano poteri forti e radicati nella cultura cittadina. Un sindaco debole nella trasmissione dalla teoria alla pratica: quando ha fatto la scelta «rivoluzionaria» di affidare il comando dei vigili ad un esterno, ha scelto un candidato che non aveva i requisiti e che si è dovuto dimettere.
Milano e Torino, a dispetto della crisi, continuano a identificarsi con una cultura imprenditoriale e di efficienza, mentre Roma – come scrisse 40 anni fa Alberto Arbasino – è rimasta una città nella quale dominano «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». Nelle prossime settimane si capirà se il più grande scandalo della sua storia, sarà l’occasione del riscatto per una classe dirigente che non abita soltanto in Campidoglio.