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Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera”
D'accordo: allora andiamo al martirio di Belfast. Portarsi un rosario e il pallottoliere. Lunedì serviranno preghiere e scabrosi conteggi sui gol fatti, e da fare. Qui, all'Olimpico, notte tutt' altro che magica. Di ansia battente e di speranza, di un calcio cupo, improvvisamente complicato, senza luce, senza allegria: ma non solo.
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Siamo stati dentro novanta minuti pieni anche di un'Italia ostinata, consapevole di una evidente provvisorietà, che voleva comunque essere certa di qualificarsi ai Mondiali in Qatar e invece adesso dobbiamo volare in Irlanda del Nord con pensieri scuri. Lo sguardo scorre sul prato dell'Olimpico: Bonucci abbraccia Jorginho.
Vialli gli dice qualcosa nell'orecchio. Se arrivate alla fine di questo racconto, capirete perché. Rileggere gli appunti: c'è scritto che partiamo subito male. Azzurri sotto ritmo, slegati, lunghi, sempre in ritardo sulle seconde palle.
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La Svizzera: con più gamba. E uno schema semplice, a noi familiare: difendono in mucchio, poi ripartono veloci. Diciamo che farsi fregare in contropiede dagli svizzeri sarebbe mortificante. E però succede. Con tre passaggi arrivano al limite della nostra area: lì compare quel Widner, il loro terzino, che è partito a rimorchio.
Tiro bellissimo. Donnarumma incolpevole. Siamo sotto, perdiamo 1-0 dopo appena undici minuti (tragico retropensiero: ci fosse stato Giorgione Chiellini si sarebbe fiondato addosso al primo svizzero di passaggio, ma è meglio non cominciare con i rimpianti).
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Pozzo nero. Imprevisto. Stadio muto, stordito. Tutti osserviamo istintivamente Mancini. Ecco: di solito, quando all'Europeo si metteva male, e qualche volta davvero s' è messa di traverso, andavi a controllare lo sguardo del Mancio, e lui ti tirava su il morale. Succede anche ora: stessa occhiata, una carezza al ciuffo (in verità, di un nuovo color mogano), poi le urla a mani unite. Stringete, più compatti, salite.
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E calmi, state calmi. Sembra funzionare. Prendiamo campo. Lottiamo. Non belli, ma pieni di nervi, furiosi nei contrasti. In fondo anche questo sappiamo fare: il ct ci ha insegnato a bere champagne; però, se è il caso, buttiamo giù il rosso della casa. Ci prova Barella, al 21'. Poi Belotti (che non riesce a metterci la solita forza, ma sta lì, non molla, ingobbito più del solito, tutta rabbia e volontà). Un momento: adesso c'è una punizione sulla sinistra.
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Batte Insigne e mette un pallone alto, in mezzo, per una squadra di piccoletti. Giovanni Di Lorenzo, con il suo metro e 83 centimetri è uno dei nostri spilungoni e allora si arrampica nell'aria, su per una scala che solo lui vede. Mischione furibondo, gomitate e pacche, ma poi il pallone finisce in rete. Gli svizzeri ci provano, protestano, Var: ma è buono, il gol è buono, e anche per il pubblico è una scossa.
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Dalla curva Sud iniziano a cantare l'Inno di Mameli a cappella. Cominciamo a spingere. Manovra sempre un po' sbrindellata. Però l'allenatore svizzero, Murat Yakin, si avvia negli spogliatoi per l'intervallo con l'aria di uno che se l'era immaginata più facile (il tipino è presuntuoso). Una pagina della Moleskine sprecata per fare l'elenco dei presenti in tribuna autorità. Serata umida. Nel primo quarto d'ora della ripresa partono almeno cinque ole.
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Mancini si volta e chiama Berardi e Tonali. Il milanista entra al posto di Locatelli (assai impreciso), Berardi prende il posto di Belotti e così ci mettiamo con un tridente leggero. Insigne fa il finto centravanti. In tribuna stampa, per nulla scaramantici, cominciamo a fare calcoli. Se finisce così, se non segniamo, se se se.
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Va bene: è dura, durissima, però la partita è nei nostri piedi, e Tonali, lui in particolare, ha qualcosa di molto giusto nei movimenti e nella corsa. Sì, forza, si può fare. Mancini annuisce. Batte le mani. Si volta ancora: fuori Barella (stremato) e dentro Cristante. Poi Raspadori per Insigne, Calabria per Emerson.
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Mancano dieci minuti. La sofferenza comincia ad essere nel destino certo di questa Nazionale, che pure Mancio ha fatto nascere dentro un'idea di allegria, di calcio spensierato. Minuto 87': dalla Var dicono all'arbitro, l'inglese Anthony Taylor, che la spinta su Berardi, di pochi secondi fa, forse è rigore. Controlla. Togliete il forse: è rigore. Va Jorginho. Va lui perché lui è il rigorista. O meglio: era il rigorista (andate su YouTube, e guardate come ha calciato).
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