Messo a tacere, delegittimato, deriso, escluso dai programmi tv.
La sua cura aveva solo un difetto: costava pochissimo.
Come disse De André siamo tutti coinvolti in questa tragedia, che è anche la nostra.#DeDonno https://t.co/XxDFAG7csH
— Enrico Ruggeri (@enricoruggeri) July 28, 2021
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera"
enrico ruggeri
Il dottor Giuseppe De Donno era appena stato trovato senza vita nella sua abitazione che già i complottisti cronici della Rete, oggi riuniti sotto le bandiere dei No vax, lo eleggevano a martire della causa. Naturalmente l'ipotesi che De Donno si sia ucciso per motivi personali non viene neanche presa in considerazione dai campioni del retropensiero obliquo:
1. De Donno voleva curare i malati di Covid con il sangue dei guariti;
2. gli studi internazionali avevano riconosciuto al suo metodo un'efficacia limitata ai casi meno gravi;
3. lui c'era rimasto male. Per costoro basta unire i puntini e si ottiene il suicidio indotto, quando non addirittura l'assassinio. «Lo hanno ucciso perché non era uno di loro».
Ma «loro» chi? Che domande: Big Pharma, l'aristocrazia scientifica delle multinazionali che intende trasformarci tutti in vaccinati della gleba ed è pronta a sbarazzarsi di chiunque ostacoli i suoi piani. Il bello, si fa per dire, è che molti tra gli autonominati vendicatori di De Donno attribuiscono opinioni e stati d'animo a un uomo di cui non sanno niente. Neanche che si era sempre dichiarato favorevole ai vaccini. In quella che è diventata una guerra di religione (sarebbe ingiusto dimenticare che De Donno fu crocefisso sul web da chi ridicolizzava per partito preso le sue cure), ci siamo abituati a vedere i numeri piegati agli interessi di bottega. Ci venga risparmiato di vedere piegate anche le persone, specie quando non hanno più possibilità di replica.
MASSIMO GRAMELLINI
2 - DAI MALATI SALVATI AGLI ULTIMI GIORNI BUI
Stefano Landi per il "Corriere della Sera"
Sono rimaste le luci accese. Le bici dei ragazzi slegate. Le scarpe buttate lì, come fanno gli adolescenti. Il silenzio assoluto intorno alla villetta alle porte di Mantova dove martedì pomeriggio Giuseppe De Donno, 54 anni, si è impiccato. La famiglia è partita subito. La moglie Laura e i due figli Edoardo, 16 anni, e Martina, 21, che a Curtatone era «assessore alla gentilezza», rifugiati dai nonni.
In casa neanche due righe per capire come uno dei primi medici eroi della lotta al Covid, dopo aver salvato centinaia di vite, abbia deciso di fare a meno della sua. Al Carlo Poma di Mantova, dove è stato primario di Pneumologia, il vuoto lasciato dalla sua figura. Eppure molti dei suoi amici più stretti si chiedono se sia un sentimento vero. O se quella sua clamorosa esposizione mediatica non avesse suscitato l'invidia del camice accanto. Di certo in ospedale non ci poteva, oltre che voleva, più stare.
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Da quando la sua crociata per l'utilizzo del plasma iperimmune per curare i pazienti Covid era passata di moda, con la chiusura dei rubinetti dei finanziamenti alla ricerca. Lo stress monta: si torna a vedere nero scuro. «I mesi in prima linea gli avevano trasmesso adrenalina - racconta il direttore sanitario dell'ospedale Raffaello Stradoni -. L'avevano rimesso sulla barricata, a salvare vite umane. Il ritorno alla normalità l'aveva fatto ripiombare in quell'antica sofferenza. Qualcosa da cui stava provando a curarsi».
Ieri le piazze no-vax lo hanno salutato come un eroe incompreso, ma lui, che si era vaccinato, dai social era scappato proprio quando aveva capito che i suoi ultras erano no-vax accaniti. Non il suo mondo. Il 9 giugno De Donno, comunica la decisione di fare un passo indietro. Di uscire da quell'ospedale per tornare alla sua antica passione. Il sogno era quello di tornare a fare il medico del popolo nel suo Salento. Si trasforma intanto in medico di famiglia in zona. La nuova attività sembra dargli gli stimoli giusti, non vedeva nero, ma comunque grigio. E quando vedi davanti un futuro triste e segnato, i pensieri diventano ossessivi.
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«Sembrava aver trovato un nuovo slancio, ma da domenica lo sguardo era perso. Sperava di poter vivere in pace. Di ritrovare aria. La macchina del fango partiva da gente che aveva intorno», racconta uno dei suoi amici più cari, Roberto Mari, presidente del consiglio comunale di Porto Mantovano. Alti e bassi: un medico di provincia sballottato nei salotti tv. Inseguito come l'uomo che poteva tirar fuori l'Italia dalle sabbie mobili della pandemia. Sedici ore in corsia e le altre in tv. Sedotto e abbandonato tra qualche problema maturato anche in famiglia. Ieri gli interrogatori: la procura di Mantova ha aperto un'inchiesta, sequestrando pc e cellulari del medico per capire se possano esserci responsabilità di terzi. Domani, la camera ardente, a Curtatone, dove De Donno in passato aveva fatto anche politica in una lista civica.
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«Il suo è un gesto che non può essere figlio solo di un fallimento professionale», dice Ivan Papazzoni, un amico curato da De Donno. «Trovo pesanti gli attacchi in Rete, prima ti mitizzano poi non rispettano nemmeno la morte», attacca Stefano Rossi, candidato a sindaco di Mantova nel 2020, che lo conosceva bene. Perché sui social è il solito ring di congetture. Attaccano la sua vita personale. «Merita il silenzio e il rispetto per il suo grande lavoro: lo conosco da 20 anni, viveva per gli altri», spiega il sindaco di Curtatone Carlo Bottani. Lui voleva solo spingere su una cura alternativa. Gli avevano fatto capire che non c'era futuro. Scavandogli un ulteriore vuoto intorno. E lui era già stanco del resto.
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