Tommaso Pellizzari per corriere.it
massimiliano allegri
Nella ricchissima intervista a Mario Sconcerti sul «Corriere della Sera» del 6 dicembre, Massimiliano Allegri dice tante cose sorprendenti. Ma una di queste lo è di più: «Io a casa non ho nemmeno un computer, uso l’iPhone come un telefono e basta». Davvero strano, perché alcune delle affermazioni dell’ex allenatore della Juventus somigliano molto a quelle che, su ogni argomento, si leggono nelle discussioni sui social network: opinioni personali scambiate per fatti o espresse su base di fatti inesistenti, distorti o male interpretati; noncuranza per le contraddizioni; riduzione di concetti complessi a ovvietà, in modo da evitare obiezioni decisive. Più l’antimodernismo. Che Allegri rivendica di applicare non solo alla sua vita quotidiana ma anche al suo lavoro.
La tecnologia
allegri e il 'corto muso'
Nell’intervista l’allenatore livornese ribadisce che a suo parere nel calcio «non esistono gli schemi, non esiste l’intelligenza artificiale, conta l’occhio del tecnico». E aggiunge: «Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Quello che ho già visto. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici». Al di là del fatto che magari non tutti gli allenatori hanno il suo occhio, e quindi la tecnologia li può aiutare, Allegri implicitamente sostiene che chi usa le tecnologie lo fa in modo acritico, senza riflettere sui dati a disposizione.
giovanni galeone massimiliano allegri
Ma chi l’ha detto che è così? Chi l’ha detto che un allenatore, davanti a un tablet con delle statistiche, non si limiti a tenerle in considerazione o a utilizzarle mescolandole con altre idee o suggerimenti che il campo gli ha dato? Se il ragionamento di Allegri fosse vero, è come se quegli stessi allenatori si mettessero al volante di un’automobile aspettandosi di essere portati a destinazione senza guidarla.
Studenti, maestri e professori
Dopodiché, non è chiaro perché per Allegri un allenatore non debba studiare e aggiornarsi, ma i dirigenti calcistici sì: «Servono corsi su corsi, esami duri, riscontri di competenze specifiche». Strano, perché Allegri è palesemente infastidito dalla presenza nel calcio di troppi «professori». Tra cui però non figura il c.t. della Nazionale Roberto Mancini, «maestro in un mondo di professori» cui Allegri fa i complimenti: «È cambiato. Ora parla di calcio con tutti. Gioca semplice». Opinione rispettabile ma piuttosto discutibile, perché invece il calcio della Nazionale di oggi sembra di gran lunga il più complesso e raffinato mai giocato da una squadra di Mancini: basta confrontarlo con quello della sua prima Inter o anche del suo Manchester City (avvertenza: anche questa è un’opinione. Che però sa di esserlo).
arrigo sacchi
I «fighetti»
Così come figlio di un’opinione di Allegri è stato il consiglio che Max ha rivelato di avere dato al collega Marco Giampaolo prima che iniziasse la sua esperienza al Milan: «Non fare una squadra di fighetti, nessuno ti vieta di giocare con due mediani nel mezzo». Qui invece Allegri cade in contraddizione rispetto alla sua convinzione che nel calcio i calciatori contino molto di più del modo in cui li si fa giocare. A Giampaolo, il suo predecessore in rossonero rivela di avere suggerito l’esatto contrario: prima di tutto il modulo. Solo che poi viene difficile resistere alla tentazione di andare a rileggere una delle formazioni del Milan di Allegri che conquistò lo scudetto del 2011. Per esempio quella che vinse il derby il 14 novembre 2010: Abbiati; Abate, Nesta, Thiago Silva, Zambrotta; Gattuso, Ambrosini; Flamini, Seedorf, Robinho; Ibrahimovic. Ecco: se questi 11 li avesse avuti Giampaolo, avrebbe chiesto al club di venderli, per comprargli dei «fighetti» come quelli che si è trovato in rosa quest’anno?
arrigo sacchi
Orizzontale
L’aspetto curioso dell’intervista di Allegri è che proprio l’argomento dei calciatori è quello da lui usato per sminuire il Barcellona di Guardiola, che «nasce con tre grandi giocatori che pressano alti e spingono le difese avversarie dentro la loro area. Così a sua volta i centrocampisti salgono e si inseriscono e la tua difesa può arrivare a metà campo. Ma devi avere Iniesta, Xavi e Messi». Sarebbe lunghissimo spiegare quanto errata sia questa lettura del gioco di quel Barcellona: basti dire che non erano esattamente quei tre i pressatori chiave del centrocampo blaugrana. In più, ad
Allegri sfugge che il Barcellona di Guardiola è il punto di arrivo e non di partenza della rivoluzione spagnola. Che nasce negli anni 70 ma che ha un’accelerazione decisiva con la vittoria della Spagna nell’Europeo 2008: quello in cui il c.t. è Luis Aragonés, che impone il «toque», al punto da chiedere ai giornalisti di smettere di usare la dizione «Furie rosse» come sinonimo della sua Nazionale. La riprova di tutto questo? Quando la «Roja» trionfa, Pep Guardiola deve ancora iniziare la sua prima stagione da allenatore del Barcellona.
berlusconi arrigo sacchi
Che, a differenza di quanto pare credere Allegri, non avrebbe poi giocato in «orizzontale». Guardiola, anzi, ha sempre detto di odiare il cosiddetto tiqui-taca: perché a lui del possesso fine a se stesso non importa nulla. Il possesso, se accompagnato da una rapida circolazione della palla, ha un solo scopo: muovere l’avversario in modo da creare gli spazi per arrivare al gol. Che ci si arrivi in orizzontale, diagonale o verticale non fa nessuna differenza.
Verticale
Così come non ne fa alcuna per uno dei maestri di Guardiola, cioè Arrigo Sacchi. Sul cui Milan Allegri si lancia in un’affermazione curiosa: «Ho visto venti volte le partite di Sacchi, ricordo quella a San Siro in cui il suo Milan segnò 5 gol al Real. Giocava dritto per dritto, come un fuso. Era un Milan verticale, esattamente di contropiede». Verissimo. In parte.
MESSI GUARDIOLA
Chi ha mai negato che il Milan giocasse in verticale? Chi ha mai negato che il pressing feroce ordinato da Arrigo non avesse lo scopo di recuperare il pallone e fiondarsi in porta il prima possibile? Mentre tutto si può dire di quel Milan, tranne che giocasse «esattamente di contropiede». Primo, perché il contropiede è un modo di giocare che prevede difesa bassa e colpi alle spalle di un avversario sbilanciato. E il Milan non faceva quello. Secondo, perché la differenza tra contropiede e ripartenza (azione sistemica nata dai movimenti di squadra tendenti a mettere in difficoltà gli avversari in possesso del pallone) è non solo evidente, ma ormai consolidata da almeno un trentennio.
La vergogna
Dirlo, a differenza di quanto sembra credere Allegri, non è necessariamente esprimere un giudizio di valore su un modo di giocare rispetto a un altro. Infatti non è nemmeno chiaro a chi Max si riferisca quando dice «non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare».
messi guardiola 1
La vergogna non c’entra: c’è chi, semplicemente, si limita a preferire un calcio diverso. E questo al netto del fatto che tutti i grandi allenatori degli anni 2000 (Ancelotti, Guardiola, Mourinho, Klopp) hanno avuto – direttamente o indirettamente – un maestro riconosciuto: Arrigo Sacchi. Il quale, se non inventato, almeno ha perfezionato in modo decisivo un certo modo di giocare. Eppure è italiano anche lui. Perché ce ne dovremmo vergognare, per dire?
striscione per guardiola