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Sergio Harari per il “Corriere della Sera”
Sul decorso a lungo termine dei sintomi da post Covid sappiamo ancora poco ma recentemente uno studio cinese ci ha fornito informazioni preziose su cosa è accaduto a distanza di due anni in chi era stato colpito dall'infezione nella prima ondata pandemica. Lo studio, pubblicato su Lancet Respiratory Medicine, contiene una buona e una cattiva notizia: la cattiva è che dopo 24 mesi oltre la metà di chi aveva contratto il virus in fase acuta accusa ancora dei disturbi, mentre la buona è che i sintomi vanno gradualmente attenuandosi nel tempo.
Gli autori hanno seguito 1.192 persone contagiate da Sars-CoV-2 e ricoverate tra il 7 gennaio e il 29 maggio 2020 al Jin Yin-tan Hospital di Wuhan, valutandoli dopo 6, 12 e 24 mesi. I pazienti, per il 54 per cento uomini con una età media di 57 anni, sono stati sottoposti a una serie di controlli clinici (spirometrie, Tac del torace, questionari sulla qualità di vita) e a interviste finali per capire la frequenza e gravità dei disturbi sia fisici che psicologici sofferti. Dopo un anno dalla fase acuta di malattia, la percentuale di soggetti che lamentavano almeno un sintomo era del 68 per cento mentre si riduceva al 55 per cento dopo due.
I sintomi più spesso segnalati sono stati la stanchezza generalizzata, la facile affaticabilità muscolare e i disturbi del sonno (ma anche dolori articolari, palpitazioni, vertigini, fiato corto). La valutazione sullo stato psichico e sulla qualità di vita è andata gradualmente migliorando con, tuttavia, la persistenza di stati di ansia e depressione nel 12 per cento dei pazienti a due anni dalla guarigione, così come anche per la percezione di fiato corto. Quest' ultima, la dispnea, sintomo peraltro assai frequente, si conferma un disturbo di difficile valutazione, senza una chiara corrispondenza con i dati clinici che spesso risultano perfettamente normali.
I pazienti che continuavano ad accusare sintomi a distanza di tempo presentavano un rischio quasi quattro volte superiore agli altri di avere problemi di mobilità, di dolore o disagio, e oltre sette volte maggiore di ansia e depressione. Inoltre, avevano un rischio quasi tre volte più alto di effettuare visite ambulatoriali e 1,5 volte maggiore di essere ricoverati in ospedale.
L'età più avanzata e il sesso femminile (come già documentato da altri studi) costituivano importanti fattori di rischio per lo sviluppo dei sintomi e per il loro persistere nel tempo. Un dato interessante è che non si è registrata una stretta correlazione fra la severità della malattia sofferta durante il ricovero e i disturbi da post-Covid.
Questo studio fotografa una situazione che solo adesso cominciamo a conoscere, quella degli effetti a lungo termine della prima ondata pandemica, ma pone anche una serie di quesiti: cosa succederà più in là nel tempo? Tutte le altre varianti che si sono succedute saranno responsabili di post-Covid con la stessa frequenza e gravità? Come dobbiamo seguire negli anni questa enorme massa di pazienti per assisterli al meglio e come dovremo ridefinire i bisogni di salute e le risposte organizzative dei Servizi sanitari nazionali?
E infine, possono i vaccini ridurre i sintomi da post-Covid in chi ha già sofferto per l'infezione acuta? In effetti alcune recenti ricerche scientifiche sembrano suggerire una possibile azione anche in questo senso, forse riducendo la carica di «serbatoi» virali rimasti quiescenti nell'organismo e diminuendo il rischio di successive re-infezioni che aggraverebbero il quadro clinico. Sono molte le domande alle quali la ricerca deve ancora rispondere ma alcune cominciano ora a chiarirsi meglio.
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