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Giovanni Rezza* per il "Corriere della Sera"
(*) Epidemiologo, Direttore della prevenzione sanitaria del ministero della Salute
A due anni dalla sua comparsa, siamo nel mezzo della quarta ondata di Covid-19. Il virus che ne è causa, Sars-CoV-2, si sta rivelando estremamente insidioso. Ciò che sorprende, è soprattutto la sua capacità di acquisire e fissare mutazioni che finiscono per dar vita a varianti sempre più trasmissibili rispetto a quelle che le hanno precedute.
È stato così per la variante Alfa e poi per Delta, di cui Omicron è risultata perfino più contagiosa. Inoltre, sia Delta che, in misura maggiore, Omicron, si sono dimostrate in grado di evadere la risposta immune e di ridurre quindi, seppur parzialmente, l'efficacia dei vaccini, motivo per cui è stato necessario ricorrere alla somministrazione di una provvidenziale dose di richiamo per aumentare la protezione nei confronti delle forme gravi di malattia.
La maggior contagiosità e il breve intervallo di tempo che intercorre fra la comparsa di un caso e quello successivo conferiscono a Omicron un vantaggio selettivo nei confronti di altre varianti nonché la capacità di generare un gran numero di infezioni nel giro di pochissimi giorni. Da ciò consegue che, anche se la virulenza intrinseca di Omicron è ridotta - il rischio di ospedalizzazione sembra essere circa un terzo di quello di Delta -, rimangono però elevati sia il rischio di congestione delle strutture ospedaliere che di eventuali criticità relative alla continuità di alcuni servizi essenziali.
VARIANTE SUDAFRICANA - OMICRON
Omicron, secondo il politologo Yascha Mounk, segna l'inizio della fine «sociale» dell'epidemia. Se possa anche preludere alla fine «biologica» della crisi pandemica è però presto per dirlo. Si fa spesso riferimento, per spiegare ciò che sta accadendo, alla pandemia di «Spagnola», che fu però causata da un virus influenzale, ben diverso dai coronavirus, e si manifestò comunque con un susseguirsi di ondate epidemiche aventi ciascuna caratteristiche diverse dall'altra.
Durante la prima ondata, che iniziò nel marzo del 1918, all'epoca della «Grande Guerra», predominarono i classici sintomi influenzali, e l'impatto clinico tutto sommato non fu grave. La seconda ondata, che ebbe inizio verso la fine dell'estate del 1918, fu invece devastante, soprattutto fra ottobre e dicembre, a causa dell'alta frequenza di polmoniti, che spesso colpivano anche persone di giovane età, e determinarono un'elevata mortalità. La terza ondata, iniziata a cavallo fra dicembre e gennaio, si protrasse fino a marzo-aprile 1919, ma fu meno virulenta.
Purtroppo, a differenza di quanto accade oggi, la mancanza di tecnologia non permise allora di seguire le evoluzioni del virus dal punto di vista molecolare e di identificare, quindi, eventuali mutazioni che potrebbero spiegare le differenze in quello che veniva un tempo definito, con un termine immaginifico, come «genio» epidemico. Se la storia si ripetesse sempre con le stesse modalità, pur coscienti della attuale minaccia alla sanità pubblica portata da Omicron, guarderemmo comunque al futuro con un cauto ottimismo.
Attenuazione dei sintomi e immunità di popolazione causata da pregresse infezioni e/o vaccinazioni fanno ben sperare, in quanto qualsiasi nuova variante troverebbe con buona probabilità la popolazione maggiormente resistente. Riesce poi anche difficile pensare a una nuova variante che possa diffondersi in maniera più rapida ed efficiente rispetto ad Omicron. Eppure resta un margine di incertezza, perché i virus, si sa, sono bizzarri, e le opportunità che loro offre un mondo globalizzato e in larga misura povero di risorse e di vaccini sono davvero tante.
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