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    SAPEVATE CHE C'ERA UN "TERZO UOMO" DEL WATERGATE? È MORTO A 87 ANNI, DOPO ESSERE FINITO NELL'OMBRA - BARRY SUSSMAN ERA IL CAPOCRONISTA DEL "WASHINGTON POST" CHE ASSEGNÒ AGLI ALLORA SCONOSCIUTI GIORNALISTI WOODWARD E BERNSTEIN IL CASO CHE AFFONDÒ LA PRESIDENZA NIXON: PECCATO CHE POI FU TAGLIATO FUORI DAL FILM "TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE" E NON VENNE COINVOLTO NEMMENO NELLA STESURA DEL LIBRO - GIUSTAMENTE SI OFFESE E SMISE DI PARLARE AI DUE REPORTER: È SCOMPARSO ORA, A POCHI GIORNI DAL 50ESIMO ANNIVERSARIO DEL CASO...


     
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    Matteo Persivale per www.corriere.it

     

    barry sussman con woodward e bernstein barry sussman con woodward e bernstein

    Strano ma vero, il mitologico direttore del Washington Post che affondò la presidenza Nixon, Ben Bradlee, non amava il film «Tutti gli uomini del presidente»: gli pareva (correttamente) che l’interpretazione, straordinaria, di Jason Robards, forse l’unico uomo al mondo con un cipiglio più minaccioso del suo, l’avesse in qualche modo messo in ombra.

     

    Chi non ricorda «Bradlee» stravaccato con le gambe stese sulla scrivania durante le riunioni che sibila a Robert Redford (Bob Woodward) e Dustin Hoffman (Carl Bernstein) «cercate di essere fortunati, allora».

     

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    Un’altra leggenda del giornalismo americano dell’età dell’oro, Mike Wallace di «60 Minutes», carisma inimitabile e profilo da moneta romana, vide con dispiacere il film «The Insider» che raccontava il suo lavoro nel celebre scoop che mise all’angolo l’industria americana delle sigarette: per interpretare il suo ruolo venne scelto Christopher Plummer, gigante del teatro classico e del cinema — esattamente come capitò a Bradlee con Robards, Plummer era probabilmente l’unico attore che poteva eclissare lo sguardo fulminante e la mascella squadrata di Wallace.

     

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    Non stupisce allora, se Hollywood è così potente, che Barry Sussman, il «terzo uomo del Watergate» con Woodward e Bernstein, sia morto dimenticato dall’America e dal mondo qualche giorno fa, a 87 anni: nel film Sussman, che nella realtà ebbe un ruolo fondamentale, fu cancellato.

     

    Semplicemente per motivi di scorrevolezza della trama: lui era il capocronista, certo, quello che assegnò la storia di quella effrazione negli uffici del Watergate a Woodward-Bernstein, ma nella sceneggiatura c’erano già Howard Simons, il vicedirettore (interpretato da Martin Balsam, leggenda del teatro e straordinario caratterista per hollywood) e Harry Rosenfeld, vicecapo della cronaca metropolitana (nel film è il burbero ma bonario Jack Warden).

     

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    Così, per semplificare un po’ la vita agli spettatori che già dovevano seguire la trama di un film complicatissimo nel quale non ci sono inseguimenti ma lunghissime telefonate con le «fonti», Sussman fu cancellato.

     

    Era il suo destino: in origine, il libro «Tutti gli uomini del presidente» doveva essere firmato anche da lui. Woodward e Bernstein decisero che non serviva loro un editor come Sussman, e lo tagliarono fuori dal contratto (Sussman scrisse un libro tutto suo, che uscì qualche mese dopo quello dei colleghi, ebbe ottime recensioni e finì rapidamente fuori stampa dove rimane tuttora).

     

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    Disse – meglio tardi che mai – 32 anni dopo Woodward: «Il film è un racconto incredibilmente accurato di quello che è successo. Per limitare il numero di personaggi il ruolo di Barry Sussman è stato ‘fuso’ con quello di un altro personaggio (Warden-Rosenfeld, ndr). Questa cosa è deplorevole: Carl Bernstein e io avremmo dovuto batterci per Sussman, che ebbe un ruolo fondamentale nel guidare e dirigere il nostro lavoro».

     

    L’ammissione non emozionò più di tanto Sussman, che ad Alicia Shepard — autrice dell’ottimo «Woodward And Bernstein: Life in the Shadow of Watergate» del 2006 — ha dichiarato laconico: «Non ho niente di buono da dire su entrambi».

     

    Dopo aver lasciato il ruolo di capocronaca creò e diresse la redazione del Post, molto avanti rispetto alla concorrenza, che analizzava i sondaggi d’opinione dei quali Sussman aveva inteso in anticipo l’importanza. Nel 1987 lasciò il giornale che era stato così poco generoso con lui.

     

    Concluse la carriera, dal 2003 al 2012, insegnando a Harvard (ed è proprio la Fondazione Nieman per il giornalismo di Harvard a ricostruirne la strepitosa storia, in questo articolo di Joshua Benton): piccolo prestigioso risarcimento per una carriera tanto straordinaria quanto avara di gloria.

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