Alberto Abburrà per "La Stampa"
stephan schmidheiny
Sono passati 35 anni da quando l'Eternit di Casale Monferrato ha chiuso i battenti, ma nella sede dell'Associazione famigliari e vittime dell'amianto (Afeva), il telefono non ha mai smesso di squillare.
Solo nell'ultima settimana hanno chiamato in tre e la diagnosi è sempre la stessa: mesotelioma, il tumore alla pleura. Nicola Pondrano, volto storico del sindacato e anima dell'associazione, ormai è tristemente abituato.
Guarda lo schermo su cui lampeggia un numero sconosciuto, sospira e racconta: «Le cure hanno fatto enormi progressi, ci sono storie incoraggianti di pazienti che resistono, ma questa rimane una tragedia enorme».
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Lui che in Eternit era entrato da operaio alla fine degli Anni '70, la storia di quel posto la conosce bene e ogni volta che arriva una telefonata è come se si sentisse un sopravvissuto.
Non è il solo. Da quarant'anni Casale vive in un clima di psicosi perenne. Qui la paura non ha volto, forma, né odore. Ha solo un nome: asbesto o più comunemente amianto. Un nemico subdolo e invisibile le cui fibre sono mille volte più sottili di un capello.
parenti delle vittime di amianto
Un veleno che nasceva in fabbrica e si insidiava ovunque. Qui fino al 1986 c'era il più grande stabilimento europeo della Eternit e non è difficile capire perché, proprio qui, il tasso di queste neoplasie respiratorie sia ancora oggi venti volte superiore alla media italiana (rapporto Iss). In città tutti hanno almeno un parente, un amico, un vicino di casa che è morto.
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Tutti hanno vissuto in prima persona le mobilitazioni e tutti sanno che domani si apre a Novara l'ennesimo atto della durissima battaglia per avere giustizia. Il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che nel 1976 ha ereditato la guida dell'azienda, dovrà rispondere del decesso di 392 persone (62 ex dipendenti e 330 cittadini).
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Si tratta del processo bis, dopo la sentenza della Cassazione che nel 2014 ha annullato la condanna a 18 anni per effetto della prescrizione. Quello era il maxi procedimento di Torino.
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Nel frattempo l'accusa è cambiata: allora si procedeva per disastro colposo, oggi per omicidio volontario con dolo eventuale. Negli occhi dei famigliari delle vittime c'è ancora tutta la delusione per quell'epilogo.
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«Una giornata che non si può dimenticare, fu una pugnalata nel cuore» ricorda Giuliana Busto che ora è la presidente di Afeva. «Dopo la lettura della sentenza la sala fu invasa dalla rabbia. Rientrati a Casale abbiamo trovato una delegazione di cittadini e studenti che ci offrivano solidarietà. È stato un duro colpo, ma la nostra battaglia è subito ricominciata».
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Giuliana ha perso un fratello che nel 1988 aveva 33 anni: vita da sportivo salutista, lavoro in banca; è morto senza aver mai varcato i cancelli di quella fabbrica maledetta. «Sono passati tanti anni, il nostro desiderio di verità è rimasto intatto. Siamo testardi e continueremo a combattere affinché vengano dimostrate le responsabilità».
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Il grande accusato è sempre lui, Schmidheiny, che nel frattempo ha compiuto 73 anni ma esattamente come allora si dichiara innocente. «Non c'è stato né dolo né colpa - ribadisce Astolfo di Amato, il legale che lo difende in Italia -. La sua condotta è sempre stata perfettamente adeguata alle conoscenze dell'epoca».
Un parere opposto a quello dell'avvocato Maurizio Riverditi che insieme ad altri quattro colleghi assiste le parti civili: «All'epoca dei fatti si sapeva che la concentrazione di fibre di asbesto nell'aria era altamente nociva e cancerogena - spiega -. Così come era nota la pericolosità della frantumazione a cielo aperto dei materiali contenenti amianto e la diffusione sul territorio del polverino».
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Come nel 2014, sul procedimento aleggia lo spettro della prescrizione, specie se il capo d'imputazione dovesse essere riformulato. Sette anni fa i giudici hanno considerato la data della chiusura della fabbrica, il 1986, come il momento in cui il reato di disastro cessava di essere perpetrato. Ma che i danni provocati dallo stabilimento siamo proseguiti anche oltre il 1986 è ormai acclarato.
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Dopo lo stop alle lavorazioni la struttura è rimasta in uno stato di abbandono fino al duemila quando il Comune ha bonificato l'area. Nel frattempo da porte e finestre è uscito di tutto e la città era lì a due passi.
Ancora oggi il problema è tutt'altro che risolto. Solo a Casale si stimano cinquanta nuovi malati all'anno per un totale di circa tremila casi da quando si è in grado di ipotizzare un conteggio.
eternit casale monferrato
E il peggio non è ancora arrivato perché il tempo di incubazione della malattia è molto lungo, fino a 40 anni dall'esposizione. «Le stime dicevano che il picco di diagnosi sarebbe arrivato quest'anno - aggiunge Bruno Pesce, altro uomo simbolo delle battaglie casalesi -. Adesso però si parla di 2022 o forse oltre. Poi la curva dovrebbe iniziare a scendere, aspettiamo tutti quel giorno».
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Di certo il problema non si risolverà prima della fine del secolo, non prima di aver rovinato altre esistenze di quelli che oggi sono bambini e ragazzi. Assunta Prato è un'insegnante in pensione che di mesotelioma ha perso il marito. Ora si occupa di formazione predicando un ricambio generazionale che sarà il futuro di questa storia di attivismo e civiltà.
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«La risposta dei ragazzi è straordinaria» racconta mentre le si illumina il volto. «Decine di loro hanno accettato di seguire un percorso extra scolastico sull'amianto e i rischi correlati. Poi ci sono laureati che partono da Casale e offrono la loro esperienza in giro per il mondo».
romana blasotti pavesi
Certo, il tempo passa e anche i protagonisti di queste battaglie invecchiano. La «pasionaria» del primo processo, Romana Blasotti Pavesi, oggi ha 92 anni. L'età e il peso di cinque lutti da amianto (marito, figlia, sorella, nipote e cugina) l'hanno costretta a farsi da parte.
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Nel 2014 dopo la sentenza si era congedata con voce tremante: «Non ho più le lacrime per piangere, ma non può finire in questo modo». Ecco, a sette anni da quel giorno la storia riparte: il tempo dirà se davvero doveva finire in quel modo.
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