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Henry Jean Servat per Chi
È sbarcata da un altro pianeta. Trent’anni fa aveva detto: «Sono la donna di domani». Quindi di sempre. Oggi Grace Jones ci racconta la sua vita senza preoccuparsi delle date perché... «Tutto è permesso tranne morire», dice. «L’immagine è il mio mestiere. Uso il mio corpo per creare».
Domanda. La sua vita è un’opera d’arte?
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Risposta. «Sì, a pieno titolo. Le mie canzoni sono documentari sulla mia vita, i miei spettacoli ne fanno parte e tutto questo compone un’opera ricca di creatività, di fantasia e di emozioni».
D. Nel suo libro Je n’écrirai jamais mes mémoires (“Non scriverò mai le mie memorie”, Éditions Séguier) dà la sensazione di aver vissuto in modo istintivo. Le capita di avere rimorsi?
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R. «Rimorsi mai, rimpianti sì. Quello di non aver fatto prima del cinema, in particolare di non aver accettato il film che mi aveva proposto Ridley Scott, Blade Runner. Avrebbe cambiato la mia immagine e la mia carriera. Quando avevo deciso di accettare era troppo tardi. Non avevo seguito l’istinto. Comunque, il passato è passato, non ci penso, non più che al presente. Io penso al futuro, al mio futuro. E io ci sono ancora!».
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D. Ha scelto di tornare a vivere in Giamaica. Eppure ha trascorso lì gli anni dell’infanzia, e non sono stati idilliaci. Nonostante tutto ha un legame stretto con la terra dei suoi antenati?
R. «È la Giamaica che mi dà forza. Per me è come una fonte di giovinezza. Le persone sono “sane” e un po’ matte! Sono arrivati in Giamaica prima sulle navi dei Vichinghi, poi su quelle dei pirati. Con le persone venute da lontano, gli abitanti della mia isola hanno fatto l’amore. Hanno bevuto molto, poi hanno rifatto l’amore. Quindi io sono figlia di tutte le culture che si sono mescolate sull’isola. Per capirmi dovrebbe venire in Giamaica».
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D. Che cosa è cambiato nella piccola Beverly (il suo secondo nome, ndr) che assisteva alla messa più volte alla settimana, obbligata da una famiglia religiosa, con un padre pastore e un nonno vescovo?
R. «Quello che è cambiato è che ho cominciato a prendere da sola le mie decisioni scappando dalla famiglia. Ho assunto il controllo della mia vita. Adesso, se prendo una decisione sbagliata, devo rimproverare solo me stessa. Rivendico la responsabilità di tutto quello che ho potuto fare, nel bene e nel male».
D. Che cosa ha fatto di Grace Jones come icona moderna?
R. «Non mi sono mai considerata un’icona. In tutto quello che ho realizzato, sono rimasta soprattutto la madre di Paulo. Se le persone mi definiscono un’icona moderna, deve essere perché, grazie al mio lavoro, ho influenzato e ispirato delle generazioni».
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D. Si può dire di Jean-Paul Goude (designer e padre di Paulo, ndr) che è stato il suo pigmalione?
R. «No. Nel mio libro parlo di Antonio Lopez, di Richard Bernstein e di qualche altro artista con cui sono cresciuta. Sono stata influenzata anche da Andy Warhol e Keith Haring. Eravamo come una famiglia di artisti. Jean-Paul ha avuto importanza, con lui eravamo una coppia, è stato un rapporto diverso dagli altri».
D. Ha forse la sensazione di aver orchestrato da sola lo scalpore e il furore di un’epoca?
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R. «In realtà ero quella che ero. Ed ero soltanto me stessa. Ma è stato proprio questo a orchestrare lo scalpore e il furore della nostra epoca, come li definisce lei. Ho la sensazione di aver portato tutto questo sulle mie spalle. E di averlo portato in alto e bene».
D. Se si guarda indietro chi, o che cosa, l’ha maggiormente influenzata per la sua classe, il suo look, il suo stile? In primo luogo il trucco...
R. «Da modella cercavo di imparare i segreti dei truccatori. Antonio Lopez, per esempio, cominciava disegnando quello che avrebbe fatto e poi passava al maquillage vero e proprio».
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D. Il suo taglio di capelli?
R. «Li ho tagliati molto corti, quasi rasati, perché piangevo sempre quando mi pettinavano. Ai tempi della mia infanzia, in Giamaica, non si poteva usare l’anticrespo o lo scioglinodi perché la religione li vietava. Quindi aspettavo soltanto di potermi tagliare i capelli. Alla fine ho scelto un taglio rasato con la parte alta piatta. Veniva da un pugile, Don Denzey, che io e Jean- Paul avevamo visto sul ring. Abbiamo deciso per una pettinatura simile a quella, che somi-gliava molto a un taglio militare».
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D. E le sue natiche?
R. «Beh, le mie natiche sono le mie natiche, dure e sode perché ho cominciato molto presto a fare sport. Ho il corpo tutto... nelle gambe. Mia madre faceva salto in alto, mio padre era un pugile dilettante. Le mie natiche, la loro curvatura, vengono dalla combinazione di tutte queste cose».
D. I suoi abiti?
R. «Mia madre era sarta e ci ha insegnato molto presto a farci da sole i vestiti. Aveva molti clienti del mondo dell’alta moda: Givenchy, Yves Saint Laurent e così via, e ci cuciva abiti ispirati a loro. Quando sono venuta a Parigi non avevo soldi. Io e Jerry Hall andavamo in un negozio che si chiamava Rag Queen e creavamo da sole dei look a buon prezzo, mettendo insieme pezzi degli Anni 30 e 40. Molti designer hanno ricalcato e riprodotto quello che portavamo».
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D. Parla spesso della cantante Joséphine Baker. Le deve qualcosa?
R. «Non l’avevo mai incontrata prima che me la presentassero alla fine di una delle sue tournée, poco prima che morisse. Sono andata dietro le quinte ed è stato fantastico. Ma quando sono arrivata non sapevo chi fosse. La gente mi diceva di aver trovato in me la nuova Joséphine Baker, ma io, allora, non sapevo che cosa lei rappresentasse in Francia, una Francia a colori, né che io, a mio modo, avrei seguito le sue orme».
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D. Lei è stata consacrata cantante di disco music, regina della notte. Si è sentita in concorrenza con altre, come Amanda Lear o Sheila?
R. «Affatto, perché non mi sono definita io cantante di disco music o regina della notte. Mi hanno appiccicato quelle etichette, quindi non era come se avessi creato io quella tendenza. Ero semplicemente là in quel momento, occupata a lavorare con Tom Motten, che creava disco mix di successo. Io facevo le mie canzoni, ma non mi consideravo una cantante: quando ascolto alcune mie registrazioni sento bene, a orecchio, che non le canto neppure giuste! Canto in modo aggressivo cercando di fare delle note. Avevo una voce profonda, ma il lavoro dei dj mi obbligava a cantare sempre più alto. Secondo me non avevo una bella voce, ho dovuto lavorarci molto. Allora ho cominciato a cantare più basso qualsiasi cosa. E tutti pensavano che fossi un uomo».
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D. Ricorda il film che ha girato in Francia nel 1976, Attenti agli occhi, attenti al ... di Gérard Pirès?
R. «Da sempre volevo fare l’attrice e mi sono presentata a un’audizione. Non ho recitato, sono rimasta me stessa e la troupe del film ha pensato che fossi perfetta per la parte. Era il ruolo di una ragazza fuori di testa. Ricordo che picchiavo su una batteria e avevo gli occhiali ... A un certo punto dovevo saltare su un tavolo e guidare una specie di ribellione a qualcosa, ma non ricordo esattamente. So però che si trattava di una commedia. Riuscire a ottenere quella particina mi ha incoraggiata a continuare».
D. Nessuno ha dimenticato il personaggio della spaventosa e scultorea May Day con il celebre abito rosa firmato Alaïa in Agente 007, Bersaglio mobile, accanto a James Bond...
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R. «Quel James Bond resta una delle mie avventure più belle! Non ne parlo molto nel libro perché ho dovuto eliminare 200 pagine. Il racconto delle riprese sarà nel prossimo volume. Ma è stata un’esperienza incredibile!».
D. Nel film aveva come partner Dolph Lundgren, che allora era il suo compagno di vita. Oggi è riuscita a fondare una vera famiglia, a trovare la stabilità sentimentale?
R. «Sta cercando di sapere se in questo momento ho un compagno? Sì, in questo momento ho un compagno. Ma la stabilità è noiosa! Ho sempre preferito essere la padrona e non la donna. Comunque non la moglie».
D. Ha la sensazione di essere riuscita ad attraversare senza danni i deliri di un’epoca e a superare i problemi di droga, alcol, sesso e Aids?
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R. «Ho avuto dei problemi, certo, e molti miei amici sono morti di Aids. Fa male, ma il dolore mi ha resa più forte. A volte supero i limiti, e lo so. Poi torno a essere saggia. La cosa più importante è poter continuare a fare quello che faccio. Visto che sono molto vanitosa, non voglio sciuparmi fisicamente. Mi prendo cura di me stessa. In linea generale, si devono fare le cose solo per piacere. Che si tratti di droga, alcol o sesso, bisogna stare attenti. La disciplina che mi è stata imposta in chiesa, quando ero giovane, a volte mi permette di dire: “Stai esagerando, Grace! Adesso riprenditi!”. E lo faccio».
D. Ci sono stati momenti in cui si è spinta troppo oltre?
R. «Sì, ma ho avuto la fortuna di esserne uscita non troppo malmessa».
D. Lei si considera una combattente, una vittoriosa o una sopravvissuta?
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R. «Tutte e tre. Adoro battermi, vincere, cercare di essere felice e anche vittoriosa. So che troverò ancora ostacoli, ma anche che ci saranno sempre gli amici ad aiutarmi. E poi ho frequentato una scuola estremamente severa, nella migliore tradizione dell’Inghilterra vit-toriana. E a questo rigore scolastico deve aggiungere quello della chiesa. È ovvio che questa sottomissione permanente è nefasta per la stima di se stessi. Ma io ho tenuto duro. Non mi sono lasciata distruggere. Mi facevo un punto d’onore di volermi bene e, a volte, mi sembrava di essere la sola a farlo. Questo mi è rimasto e, senza dubbio, è uno dei tratti della mia personalità».
D. Nel suo libro racconta di aver provato gusto mettendosi un po’ di droga fra le natiche. È stato il suo “sballo” migliore?
R. «Ho detto solo che preferivo mettere un pezzetto di coca fra le natiche che sniffarlo. Non è mai stata la mia droga preferita. Hai la sensazione di essere in vetta al mondo, ma quel mondo è fatto di polvere».
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D. Pensa che un giorno...
R. «Mi vedo come una persona che sta sempre aggiungendo una pagina alla propria storia, e quello che farò molto presto, o fra dieci anni, conterà quanto tutto il resto».
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D. Qual è il suo stato d’animo quando ritrova a Parigi i ricordi della sua “vita precedente”? R. «A Parigi mi sono sempre sentita a casa, è il luogo dove ho vissuto più a lungo fuori dalla Giamaica. E qui vive mio figlio. Non la lascio mai davvero».