Goffredo De Marchis per “la Repubblica”
RENZI E BERSANI
Le strade si dividono. Della scissione non parla nessuno ma gli indizi portano tutti lì. Bersani, Speranza (e D’Alema naturalmente) da una parte, Renzi dall’altra. Nello stesso partito ma separati da un Sì o da un No, proprio come in un matrimonio. La spaccatura, che nella direzione dem è stata appena velata dallo streaming e dalle ipocrisie tipiche della politica, avrà presto anche i suoi momenti di plasticità e di evidenza netta. Non serve un notaio per formalizzarla.
RENZI E BERSANI PD
Per esempio, si capirà molto guardando la grande piazza convocata a Roma dal premier-segretario il 29 ottobre. Piazza dove si parlerà di Europa e della riforma costituzionale. «Se è una manifestazione del Sì, come credo, noi non andremo», sentenzia Roberto Speranza in una pausa della riunione. A quel punto, l’assenza diventerà il segno di un’altra avventura.
roberto speranza
Il sofferto intervento di Gianni Cuperlo, colto nel suo significato emotivo solo da Francesco Boccia, spiega che lo stare insieme tra mille difficoltà finisce qui. Game over. «Se non c’è un’iniziativa concreta voterò contro la riforma e mi dimetto da deputato», sottolinea l’ex presidente del Pd che studia sempre le sue parole, i suoi annunci.
Gianni Cuperlo
Un tentativo estremo di difendere l’unità mettendo il “corpo” a disposizione, un po’ alla Marco Pannella. Non c’è granchè da salvare, però. Che la scissione sia cosa fatta si comprende con chiarezza dalla frase che Renzi affida ai suoi collaboratori per commentare la posizione della sinistra interna: «Ma vi siete domandati quanti erano oggi?».
Pochi, secondo il premier, una minoranza della minoranza. E ancora meno se calati nella realtà vasta degli elettori che secondo i sondaggi di Palazzo Chigi disegna un elettorato dem favorevole al Sì con cifre vicine al 90 per cento. Come dire: se se ne vanno, lo faranno un gruppetto di persone. Punto e a capo. «Ma avete sentito come hanno preso le distanze Bruno Bossio, Argentin, Chiti e De Maria?», osserva il segretario facendo una conta virtuale.
FRANCESCHINI
La pensano all’opposto i dissidenti. Che parlano della scissione di fatto tra i militanti del Pd. «Non facciamo altro che rappresentare un pezzo grande del nostro popolo», dice Speranza. Resta sullo sfondo la commissione incaricata di sondare gli altri partiti e di preparare una proposta di modifica della legge elettorale. «Perchè devo farmi dire che mi sottraggo? Ci saremo», chiarisce l’ex capogruppo. Ma Speranza pensa che “la fine è nota”.
«Renzi sull’Italicum ha chiuso. Ho detto in direzione che la sua proposta è del tutto insufficiente. Non sappiamo che farcene della melina». Chiudono anche loro. Con una porta sbattuta in faccia. «Manca la posizione del governo e del Pd. Il rinvio a dopo il 4 dicembre è eloquente. Quindi si capisce che non vuoi cambiare nulla», s’infervora Speranza. Conclusione? «Votiamo No al referendum». Secco. La decisione di Pier Luigi Bersani e dei bersaniani è definitiva.
GIACHETTI
L’ex segretario non prende la parola in direzione. Ha già detto quello che pensa e l’intervento di Renzi non ha cambiato nulla, a suo giudizio. I paletti messi da Fassino e da Franceschini, sulla carta più aperturisti del premier, lo hanno convinto che non c’è filo da tessere, che gli schieramenti andranno separati allo scontro finale del 4 dicembre. «Renzi vuole solo anestetizzare il dibattito - dice Bersani -. Se vince il Sì l’Italicum non cambierà di una virgola».
Basta così. Le due campane non hanno più voglia di ascoltarsi. Fidarsi poi... Non lo hanno mai fatto. Renzi si sente rappresentato da due discorsi che erano dei veri e propri schiaffi alla minoranza. Quello di Piero Fassino che ha ironizzato sul demonio Verdini con il quale, cambiando l’Italicum, si dovrebbe fare una coalizione al governo. E quello di Roberto Giachetti, soprattutto. Il candidato al Campidoglio ha demolito la commissione, ha difeso la legge elettorale così com’è «perchè non si può sempre rimettere tutto in discussione, alzando l’asticella ogni volta che si fa una concessione.
ROSATO ZANDA
La commissione in effetti non parte benissimo. Quando il segretario spiega che parteciperanno un membro della sinistra insieme con Orfini, Guerini, Zanda e Rosato, il suo telefonino registra subito sms di protesta: se si fa ci vogliono stare dentro tutte le correnti. Così è un pasticcio. Ma Renzi dice che la sua diponibilità è vera: «Abbiamo mostrato che facciamo sul serio. Adesso si assumeranno la responsabilità, se vogliono rompere. Io non posso bloccare il Paese per far contento qualcuno della minoranza».
I consiglieri del premier avevano suggerito di lasciar perdere, di non aprire alcun tavolo. «Tra due settimane siamo al punto di partenza. Scegliamo la strada della chiarezza», avevano sussurrato all’orecchio del premier. Ma Renzi non voleva prendersi il peso di una rottura pubblica. Ci penseranno i dissidenti a fare la loro mossa.
GOTOR
In effetti i bersaniani chiedono tutto e subito. «Quando non vuoi combinare niente istituisci una bella commissione », cita Miguel Gotor. «Se ci danno il turno unico e i collegi, abbiamo tempo per ripensarci. Ma “prima vedere cammello...” Così è soltanto un clamoroso bluff». Renzi ha ricordato la proposta di Federico Fornaro sull’elezione dei senatori. «Partiamo da lì», ha detto. Non basta? «Quella proposta è scritta nero su bianco da gennaio - risponde proprio Fornaro respingendo la carineria -. Perchè non è stata esaminata prima? Siamo fuori tempo massimo». No, non hanno più molto da dirsi, le due anime del Pd.