Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano”
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Nella vita ho fatto molte cose azzardate. Ho votato Pd alle ultime elezioni, ho acquistato un cd di Carla Bruni, ho aggiunto Antonio Razzi su Twitter e ho perfino acquistato sei sedute di epilazione con luce pulsata su Groupon, ma se mi avessero detto che un giorno avrei partecipato al rally di Monza nelle vesti di co pilota sfidando Valentino Rossi, mi sarei fatta una grassa risata.
E invece è andata proprio così. Ma per farvi capire come sia stato possibile che io - una che se un qualunque individuo di sesso maschile mette una freccia a sinistra per superare un risciò urla "Piano!" - sia finita su una macchina da rally, devo partire dall' inizio.
Un mese fa circa ho ricevuto un messaggio su WhatsApp dal pilota Luca Betti. Mi invitava a cena specificando che desiderava propormi qualcosa di audace e qui potrei già fare un paio di considerazioni: la prima è che ormai è più facile trovare un uomo che affronti una parabolica a duecento chilometri orari che uno che affronti l' idea di telefonarti anziché quella di mandarti un messaggio su WhatsApp.
La seconda è che sono andata su Google immagini per ricordarmi bene che aspetto avesse questo Luca Betti e ho sperato che la proposta audace prevedesse almeno due figli con me a nove mesi di distanza l' uno dall' altro.
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Come sempre, quando si parla di uomini, avevo fatto male i miei calcoli. Il buon Betti, dopo avermi cucinata un paio d' ore tra chiacchiere e vino bianco, mi guarda dritto negli occhi e con quel fare tra il piacione e il determinato mi fa: "Ti propongo un cosa che non ho mai proposto a nessuna donna prima di te".
Ora, considerato che nel suo curriculum non risultavano precedenti matrimoni, ero già lì che mi chiedevo se lo strascico oltre i due metri fosse troppo pacchiano, quando è arrivato il seguito: "Ti andrebbe di essere il mio copilota al rally di Monza?".
Credendo di essere già sull' altare ho pronunciato un "sì!" di quelli sconsiderati e in consapevoli che come tutti i sì scellerati pronunciati a uomini piacioni avrei pagato molto caro in seguito.
Naturalmente, quando ho accettato, io avevo più chiaro cosa fosse il bosone di Higgs di una gara di rally, ma questi sono particolari trascurabili. A pochi giorni dal weekend di gare Luca Betti mi invita a fare dei giri di prova a Monza per prendere confidenza con la macchina.
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Convinta che "prendere confidenza con la macchina" significhi sintonizzare sull' autoradio le mie stazioni preferite, gli rispondo che ho molto da fare e che salirò sulla sua Fiesta wrc direttamente in gara. Scoprirò solo in seguito che dentro le macchine da rally non solo non c' è la radio, ma neanche i tappetini, i sedili dietro, il cruscotto, nulla, neanche un Arbre Magique, il foglio del Cid, niente di niente.
In compenso è un tripudio di lamiere e tubi e fili scoperti che più che entrare in una macchina pare di entrare nel vano tecnico del Sistina, ma direi che questa è la parte meno importante della faccenda. Il venerdì mattina mi presento nel box di Betti allegra e spensierata e mi viene consegnata la tuta da indossare.
Quando scopro che è bianca e aderente, capisco perché nel rally ci sono così poche donne: non è la paura di sembrare ridicole su una macchina da corsa ma di sembrare chiatte in una tuta bianca.
Medito il ritiro dalla gara per manifesta ritenzione idrica, ma lo sguardo di Betti mi invita a tenere duro. Mi spiegano che il ruolo del copilota prevederebbe il dare al pilota le note, ovvero le indicazioni sul percorso, ma quando scopro che non devo dire "gira a destra, mo' rallenta, autogrill a 100 metri" bensì cose come "100 D4 E S5 70 D3/2 X TD" stabilisco che se la Boschi fa il ministro senza suggerire nulla che non sia già deciso da Renzi, io posso fare il copilota senza suggerire nulla che non sia già deciso da Betti.
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Ne consegue che Betti è il primo uomo in 40 anni che durante un intero weekend passato insieme non mi ha chiesto "dove andiamo?" con la faccia da pirla una volta salito in macchina.
Imbracata al sedile come Hannibal Lecter alla sua sedia, mi accingo a debuttare in pista con la serenità di chi ha accettato un' esperienza un po' for tina, ma nulladi che, quando la macchina parte.
Ora, io non ritenevo possibile che qualcosa nella sfera delle cose terrene potesse avere un' accelerazione superiore alla mia quando si aprono le porte di Zara nel primo giorno di saldi, ma ho scoperto che una macchina da rallymi batte a mani basse. Le sensazioni, nell' ordine, sono state più o meno queste: atre secondi dalla partenzami erano tornati su il pranzo, la colazione del lunedì e la minestrina mais e tapioca con cui mia madre mi aveva svezzata al quinto mese.
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Alla prima parabolica ho visto la mia vita passarmi davanti e farmi anche il dito medio dal finestrino durante il sorpasso. Alla variante Ascari ho visto Valentino Rossi conuna tunica bianca, avvolto in un fascio di luce, che mi diceva "Ma perché voi donne non state a casa a fare ciambelloni?" e io anziché dargli una testata, annuivo sottomessa. Al traguardo mi sono chiesta se uccidendo Luca Betti con un colpo di cric nel box avrei potuto sviare le indagini dicendo che era in un brutto giro di spionaggio automobilistico.
La gara successiva ho fatto passi da gigante: ho aperto gli occhi. Quellasuccessivaancora ho recuperato la mobilità degli arti superiori. Quella dopo si è riattivata la salivazione.
Dalla quinta in poi ho recuperato la memoria breve per cui al traguardo ricordavo anche il mio anno di nascita e il nome di mia madre.
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Nell' ultima prova, lo ammetto, mi sono perfino divertita, anche perché va detto, quando la paura prevaleva, di fianco a me, da guardare, avevo una valida alternativa alla strada.
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Del resto, ho assolto ligia al mio compito: mi si è chiesto di fare la rallista, mica la monaca di Monza.