Marinella Venegoni per “la Stampa”
amy winehouse
«Loro ci hanno provato a farmi andare in riabilitazione, ma io gli ho detto che no, no, no». Non ne voleva proprio sapere, Amy Winehouse, in quel 2005 mentre con la poetessa e musicista Erzsebet Beck scriveva il testo di Rehab, inno di un'epoca stupefacente in ogni senso. Intorno a lei, ancora sconosciuta ai più ma baciata da un talento vocale alla Billie Holiday, cominciò a infuriare una curiosità non sempre artistica: e lei si sarebbe trascinata dentro quella spirale fino agli ultimi amarissimi giorni, annegati nella casa di Camden Town in una overdose di alcol, il 23 luglio 2011.
amy winehouse foto di terry oneill
Il fatto è che invece Amy Winehouse ci sarebbe poi andata davvero, in una di quelle cliniche che lavorano per toglierti la scimmia della depressione e di varie sostanze. Capitò nel periodo in cui la canzone che marchiava la sua fama di ventiquattrenne maledetta scalava l' immaginario del popolo del pop. Rehab stava per essere proclamata «canzone dell' anno» ai Grammy del 10 febbraio 2008.
A Los Angeles l'aspettavano con ogni febbrile fanatismo, e lei aveva chiesto il visto per gli Usa; ma era stata di recente in una rehab londinese, seppero dai documenti i funzionari yankee. E per il visto si presero una pausa di riflessione, interrotta solo grazie a qualche tycoon del music business dalle conoscenze giuste. Era troppo tardi, però, per partire. Amy Winehouse rimase a Londra.
amy winehouse
Alle 3 del mattino, a ottomila chilometri dal fuso orario dei Grammy, quella notte la figuretta minuscola sormontata da una enorme massa di capelli tenuti fermi da una rosa scura, entrò nello studio dove la sua gloria si sarebbe celebrata via satellite. E quando dall' altra parte dell' oceano Tony Bennett aprì la busta e lesse il suo nome per cinque volte, a gioire per l' incoronazione da record c'era tutta la famiglia: papà Mitch, tassista e non granché come padre, la mamma farmacista Janis, e il fratello Alex, che poi avrebbe confessato: «È stato uno dei pochi momenti felici di tutta la mia famiglia riunita».
A PAPÀ, SENZA RANCORE
IL BEEHIVE DI AMY WINEHOUSE
Famiglia disfatta quando Amy aveva solo 9 anni, soprattutto per i tradimenti di quel poco di buono di Mitch. Amy non la prese bene. «Mi mancava quella figura che prima di dormire mi raccomandasse di dar retta alla mamma il giorno dopo, e mi abbracciasse».
Per consolazione, si rifugiò nella musica e in una chitarra, che imparò a strimpellare scrivendo le prime canzoni. Eppure, non portò mai rancore al padre. Lui l'aveva portata dentro la musica per la quale andava matto, quel suono Motown degli Anni 50 e 60 dentro il quale lei avrebbe costruito la propria fortuna.
la piccola amy winehouse
Al concertino dei Grammy, a Londra, non era invece presente quello che viene unanimemente definito la causa prima di tutti i suoi guai: Blake Fielder-Civil, il marito sposato a Miami nel 2007: «Un gigantesco sacco di merda - è la definizione del padre - il suo iniziatore allo sbandamento pesante».
Amy aveva cantato ed era stata sfavillante, pur nel ripetere l'implacabile «No, no, no!» a chi la voleva mandare in clinica. No, non si voleva curare dal mondo che si era creata, caldo di alcol, cocktail di droghe, e di quella violenza autolesionista che Blake le aveva insegnato. I tagli sparsi sulle braccia come forme identitarie di una tribù furono sempre la testimonianza inquietante di questa burrascosa simbiosi con il marito.
amy con la madre janis
«Mio padre... ha provato a farmi entrare in riabilitazione ma non andrò», cantava mentre guardava con un sorriso Mitch seduto di fronte a lei. Ma non solo a quel papà aveva detto di no: lo aveva detto anche a Simon Fuller, il patron della compagnia che si occupava di lei, inventore delle Spice Girls.
Lui le aveva proposto la rehab dopo aver contemplato smarrito la deriva di questa ribelle che stava riportando una nuova sincerità nel mondo della musica popolare. Lo spettacolo che lei dava, angoscioso, imbarazzante, squinternava ogni copione: Amy aveva interrotto Bono durante un discorso a una premiazione, e in un gioco tv aveva messo in difficoltà il presentatore dicendo parole sconnesse. Ubriaca, distrutta, spappolata dentro, ai concerti l'avremmo vista sempre più spesso come la tragica icona del suo inferno.
amy al collasso
SE ARTE E VITA COINCIDONO
Per Fuller era troppo. Ma lei voleva essere se stessa, star prigioniera di quel suo universo onirico. Un'artista, nella quale vita e arte coincidono. Rehab fa capire che Amy aveva un sacco di progetti, ma si sentiva senza speranza. Si era messa con Blake nel 2004, poi per qualche mese si erano separati: in quei mesi nacque di getto l'intero album Back to Black, e in Rehab Amy canta appunto la propria paura, e la dipendenza non solo da lui: «Perderò il mio tesoro / Così mi tengo sempre una bottiglia vicino». Poi, una confidenza, quasi una promessa: «Non voglio bere mai più / Ho solo bisogno di un amico / Non sprecherò dieci settimane / Mentre tutti pensano che io stia guarendo». Però Amy sapeva bene che non sarebbe guarita.
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