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    SHOWTIME! QUANDO SI GIOCA AL MASSIMO, TUTTO FA SPETTACOLO! IN UN LIBRO E IN UNA SERIE TV SU SKY RIVIVE L’EPOPEA BASKETTARA DEI LOS ANGELES LAKERS ANNI 80 CON MAGIC JOHNSON, IL GANCIO-CIELO DI KAREEM ABDUL-JABBAR E L’IMPOMATATO COACH PAT RILEY CHE SEMBRAVA UN ATTORE ANNI ’30 – LA FILOSOFIA CESTISTICA E DI MARKETING DELLO "SHOWTIME": ERANO LE 'LAKERS GIRLS' IN MINIGONNA, JACK NICHOLSON SEDUTO IN PRIMA FILA CON DYAN CANNON, LA MUSICA A TUTTO VOLUME – L’EPICA RIVALITA’ CON I BOSTON CELTICS – VIDEO


     
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    Enrico Franceschini per “il Venerdì di Repubblica”

     

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    Quando vediamo i giocatori del Real Madrid alzare la coppa della Champions sotto una pioggia di coriandoli e un'esplosione di fuochi d'artificio, quando Lady Gaga o Bruce Springsteen cantano nell'intervallo della finale del Superbowl di football americano, quando lo sport si sposa allo spettacolo anche in tribuna e sulle gradinate, dobbiamo pensare che tutto questo è cominciato negli anni Ottanta, in California, con i Los Angeles Lakers.

     

    La squadra che ha incarnato le stravaganze e gli eccessi di quel decennio, dominandolo in campo e fuori, elettrizzando i palcoscenici della Nba, con uno stile di gioco frenetico e stupefacente.

     

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    Era una formazione piena di stelle, tra cui spiccavano un giovane appena uscito dal college, Magic Johnson, e un veterano inventore del gancio-cielo, Kareem Abdul-Jabbar, guidata da un'altra stella in panchina, Pat Riley, famoso per la leadership quanto per i capelli impomatati e i completi di Armani.

     

    Ogni volta che scendevano in campo, sugli spalti sedevano attori di Hollywood e personaggi del jet-set. Tra il 1980 e il 1991, i Lakers giocarono nove finali Nba, tra cui quattro consecutive, vincendo cinque titoli. Poi Magic annunciò di avere contratto l'Hiv e si ritirò, Jabbar smise di giocare, Riley se ne andò a New York e a Miami. Ma quel periodo irripetibile ha trasformato non solo il basket professionistico americano bensì gli sport di squadra ovunque: dai canestri al pallone, oggi quando si gioca al massimo livello tutto deve fare spettacolo.

     

    Ovvero deve essere Showtime, il titolo del libro dedicato alla saga dei Lakers, scritto da Jeff Pearlman, giornalista americano già autore di dieci bestseller, e ispirazione per la serie tv Winning Time, disponibile su Sky.

     

    In due parole, Pearlman, cosa vuol dire showtime?

    «Era sia una filosofia cestistica vincente che una strategia per riempire l'arena. Erano le Lakers Girls in minigonna, Jack Nicholson seduto in prima fila con Dyan Cannon, la musica a tutto volume, i tifosi agghindati come per andare in discoteca».

     

    Cosa l'ha spinta a scrivere questo libro proprio adesso?

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    «La nostalgia. Invecchiando, si ripensa ai momenti migliori della vita e quello lo è stato, credo non solo per me».

     

    Chi fu la mente di quel gioco e perché ha rappresentato una rivoluzione?

    «Fino al 1980 il basket era uno sport più statico. Passi la palla, tagli dentro l'area, ricevi e tiri. Quando una squadra segnava, l'altra rimetteva in gioco da fondo campo, il playmaker palleggiava lentamente fino a metà campo e si ricominciava da capo.

     

    Ma nel 1979 i Lakers assunsero come allenatore Jack McKinney da Portland: fu lui a creare un nuovo ritmo di gioco, molto più veloce, a base di pressing e passaggi lunghi, dando a Magic Johnson, alto due metri, il ruolo di guardia o playmaker come si diceva allora. McKinney durò solo una stagione, perché arrivato ai play-off ebbe un grave incidente, la panchina dei Lakers passò a Riley, il suo vice, e lui continuò l'opera».

     

    Perché quel gioco è diventato uno showtime anche fuori dal campo?

    «Merito di Los Angeles. A Milwaukee o Cleveland non sarebbe successo. Ma L.A. è la città dello showbusiness, di Hollywood, delle insegne al neon, per cui quando è arrivato uno come Magic, o dopo Shaquille O' Neal e Kobe Bryant, tutti formidabili, carismatici e belli, lo spettacolo che davano in campo è diventato spettacolo anche fuori».

     

    Come riassumere Los Angeles per chi non c'è mai stato?

    «Elettrizzante. Egomaniacale. Sexy. Emozionante. Innamorata di se stessa».

     

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    Oltre che per lo stile di gioco, coach Riley non è stato un innovatore anche nell'abbigliamento?

    «Non era l'unico allenatore a indossare un completo giacca e cravatta invece della tuta, ma sembrava anche lui un attore, i suoi completi erano firmati e costosi, pettinava i capelli all'indietro come una star anni Trenta. Ha finito per influenzare generazioni di allenatori, non solo nel basket: ora sulle panchine di molti sport, gli allenatori sono vestiti in modo impeccabile».

     

    Quale era la più grande qualità di Magic?

    «L'altruismo. Era felice quando segnava 5 punti o 30, a patto che i Lakers vincessero. Non gli interessavano le statistiche personali. Solo la vittoria».

     

    C'era un giocatore che non partecipava alla filosofia dello showtime

    «Jabbar era diverso dagli altri. Intanto era più grande di età. E poi per carattere era quieto, cauto, intellettuale. La fama per lui non aveva importanza, forse perché ne aveva già avuta così tanta fin da giovanissimo. Giocava allo stesso ritmo degli altri, amava il basket, ma il giorno che ha smesso si è occupato d'altro».

     

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    Come definirebbe la rivalità di quegli anni tra i Los Angeles Lakers e i Boston Celtics?

    «Est contro Ovest. Vecchio contro nuovo. Bianco contro nero. Quelle due squadre si detestavano. Per conto mio, è stata la rivalità più accesa di ogni sport professionistico di tutti i tempi. Meglio perfino, in America, di quella nel baseball tra i New York Yankees e i Boston Red Sox».

     

    A proposito di sport professionistici, si può dire che i Lakers sono stati la madre dello showtime per tutto lo sport odierno?

    «Assolutamente. Le ballerine, l'intrattenimento nell'intervallo, il pubblico con la maglia della squadra: è nato tutto in California, con quegli indimenticabili Lakers».

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