Grazia Longo per “la Stampa”
FRANCESCA FUMAGALLI MADRE DI SILVIA ROMANO
Ho capito subito di essere finita nelle mani dei terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaeda a caccia di un riscatto. Perché quando, un mese dopo il sequestro, sono arrivata in una nuova casa, mi hanno detto: "Ora sei in Somalia, noi siamo un' organizzazione militare.
Stai tranquilla, non ti faremo del male e sarai liberata". E io sapevo che la Somalia era assediata dagli islamici di Al Shabaab».
SILVIA ROMANO
Nuovi particolari emergono dall' interrogatorio di Silvia Romano - la cooperante milanese liberata sabato scorso dopo 18 mesi di prigionia - di fronte al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi dei carabinieri del Ros, guidato dal generale Pasquale Angelosanto, domenica pomeriggio a Roma.
A partire dalla consapevolezza di avere a che fare con terroristi che insanguinano la popolazione somala e puntano ai sequestri di persone occidentali per ottenere denaro finalizzato a foraggiare la jihad. «Poiché i mesi passavano e non succedeva niente, ho chiesto più di una volta se per liberarmi stessero aspettando un riscatto. Ma la riposta era sempre la stessa: "Noi eseguiamo solo gli ordini. Non sappiamo altro, siamo qui solo per farti da guardia". In tutto i miei carcerieri erano 6, facevano turni in tre alla volta. Soltanto uno parlava un po' di inglese. Con lui quindi cercavo di capire se volevano liberarmi in cambio di soldi».
SILVIA ROMANO
Diciotto mesi sono lunghi, un' eternità quando sei detenuta da uomini che non ti picchiano, non ti legano, ma ti costringono a dormire per terra su un materasso di fortuna e ti negano ogni forma di libertà. «Con il trascorrere dei mesi ho trovato un equilibrio e una forza interiore, grazie anche alla conversione all' Islam, ma più trascorreva il tempo e più temevo che la mia famiglia mi credesse morta.
Per questo ho supplicato ripetutamente di farmi fare una telefonata a mia madre, ma mi hanno sempre risposto che non era possibile. Ho capito però che volevano dimostrare che fossi ancora viva quando mi hanno girato i due video». Anche in quelle occasioni, nel maggio e agosto 2019, Silvia torna sul tema del riscatto. «"Volete dimostrare che sono ancora viva?" domandavo, ma la risposta era sempre la stessa. Erano lì solo per controllarmi».
SILVIA ROMANO
Il diario Silvia annotava tutte le sue ansie su un diario. «Avevo chiesto e ottenuto un quaderno e una penna per poter scrivere. E grazie al diario sono anche riuscita ad avere il senso del tempo che trascorreva. Prima del rilascio però ho dovuto consegnarlo ai carcerieri».
Quelle pagine custodiscono anche i motivi veri e profondi che l' hanno convinta a convertirsi all' Islam e a prendere il nome di Aisha, la moglie-bambina favorita di Maometto. «Dovunque fossimo, abbiamo cambiato sei covi, i miei carcerieri pregavano cinque volte al giorno. Dopo la conversione lo facevo anche io, ovviamente per i fatti miei, perché i musulmani non prevedono che gli uomini preghino insieme alle donne».
combatente hashed al shaabi
Dopo la conversione, cambia anche l' abbigliamento di Silvia che deve nascondere i capelli. Inizia quindi ad indossare l' jilbab, l' abito delle donne somale con il capo coperto. Tipo quello verde che aveva quando è atterrata all' aeroporto di Ciampino con un volo di Stato. La fede in Allah nasce in lei lentamente, in maniera progressiva grazie alla lettura di un Corano su un computer portatile scollegato a Internet. Ma non modifica il comportamento dei terroristi nei suoi confronti. «Quando mi sono convertita mi hanno detto "Brava hai fatto la scelta giusta", ma non hanno cambiato atteggiamento. Non mi hanno cioè trattato meglio di prima. Hanno approvato la mia scelta, ma ogni cosa è rimasta com' era».
SILVIA ROMANO
Tutto fino al giorno del rilascio. Il 5 maggio Silvia viene informata che sarà liberata, il 6 parte con uno dei suoi carcerieri. Per tre giorni viaggiano, anche su un trattore, per raggiungere Mogadiscio. Qui avviene il primo scambio: Silvia viene consegnata a due uomini che su un' auto la conducono a trenta chilometri di Mogadiscio. E qui, sabato scorso, viene finalmente affidata a due uomini dell' Aise guidata dal generale Luciano Carta. «Dai, sali in macchina. È finita. Siamo dell' intelligence, ora ti portiamo in ambasciata e domani torni a casa, in Italia».