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Alessandro De Angelis per huffingtonpost.it - Estratti
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Bisogna raccontarla dall’inizio questa storia semplicemente incredibile. Voleva candidarsi ovunque, Elly Schlein, contro Giorgia Meloni, ritenendo vantaggiosa la polarizzazione del gioco a due. E mutuando dalla premier una condotta – e un inganno – inediti a sinistra: mi metto in lista per Bruxelles, ma poi non vado. Lo fece per primo Silvio Berlusconi vent’anni fa. Ma, davanti alle resistenze del suo partito ha cambiato lo schema.
Voleva, a quel punto, candidare ovunque dei civici, tutti esterni e in contraddizione tra loro per storia e convinzioni. Un aperto atto di sfiducia nei confronti del suo partito, praticamente la seconda tappa delle primarie. Ma non è riuscita perché, avendo accettato il negoziato con le correnti, ha dovuto cedere un po’ qui un po’ lì. Per nascondere il cedimento, ha proposto dunque di inserire il suo nome nel simbolo del partito, un altro clamoroso inedito a sinistra: la trasformazione del Pd in un partito del capo, come i tanti partiti personali apertamente combattuti.
elly schlein e il simbolo del pd – vignetta by osho
Praticamente l’opposto di Enrico Berlinguer, buono per essere stampato sulle tessere, ma non per fare pulizia in Puglia o per recuperare un’idea di partecipazione o di partito che non sia solo la curva del leader. Non male, mentre al contempo si denuncia l’involuzione democratica del premierato e della cultura dell’uomo (o della donna) sola al comando.
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Morale della favola: queste ultime 24 ore di separazione assoluta dalla realtà, con incorporata una sprezzante indifferenza verso il proprio popolo votante e non rappresentano un volta-pagina nella storia della leadership di Elly Schlein. Da oggi è una segretaria quantomeno dimezzata, travolta prima ancora di arrivare alla sfida. La ragione è che ha impostato la vicenda delle liste senza politica – progetto, idee, visione – e solo come una vicenda di potere (i posti) attraverso la trattativa con i centri di potere (le correnti). Senza peraltro avere il know how di Franco Evangelisti, il mitico “a Fra’, che te serve”.
Il risultato è la rappresentazione icastica di una leader in balia delle correnti, sin dalle liste, trionfo del tutto e del suo contrario: Cecilia Strada, ultrapacifista, “mettete i fiori nei vostri cannoni”, anche a Kiev, un po’ terzomondista e Lucia Annunziata, filo americana, che sa quanto geopolitica e sicurezza si fanno con realpolitik; Marco Tarquinio, che c’azzecca più con la prima che con la seconda visto che non disdegna le comitive filo-russe del teatro Ghione, ma sui diritti è l’opposto di Alessandro Zan, candidato pure lui; Annalisa Corrado che è contro il termovalorizzatore di Roma ed Eleonora Evi che è contro quello di Bergamo assieme a Giorgio Gori, che a Bergamo è sindaco e non disdegna il climatizzatore. E così via.
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L’errore di Elly Schlein, dall’inizio fino all’ultimo atto della bocciatura personale, è cioè nel manico: l’idea che tutto, anche le scelte più importanti, possa essere una merce di scambio, nell’ambito di un negoziato permanente sulle poltrone (da quelle altrui alla sua). Ne è risultata così condizionabile da essere disposta a tutto, compreso assorbire la botta senza battere ciglio all’interno di un partito ugualmente disposto a tutto che si ringalluzzisce principalmente su questioni di interesse. Gli stessi protagonisti dell’azzardo di eleggere una segretaria non iscritta e senza esperienza la mandano sotto non nel corso di un anno senza politica, ma quando dalle chiacchiere hippy si passa alle questioni vere.
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Ne esce un quadro, di Elly Schlein e del Pd, di una strutturale fragilità che azzera il radicalismo parolaio, disvelandone l’elemento di finzione. La radicalità non c’è: è solo chiacchiera declamatoria, innocua verso Giorgia Meloni che, a differenza di Elly Schlein, è leader indiscussa di un campo e di un partito. E rende una specie di gigante financo Giuseppe Conte: mentre lui, con tutta la furbizia del caso, mette nel simbolo la parola “pace”, l’altra non riesce a mettere nel simbolo il suo nome. La storia ha incorporata la domanda se un leader così unfit to lead un partito possa avere l’ambizione di guidare l’Italia.
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