Elvira Serra per il “Corriere della Sera”
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Felicità è estrarre un fazzolettino di carta dal suo pacchetto, senza aiutarsi con la bocca. Tenere la bottiglietta d'acqua ferma per svitare il tappo (che però deve essere stato allentato prima da qualcun altro). Prendere un bicchiere con la mano o impugnare la forchetta. E poco importa che quella mano sia bionica (per l'esattezza in titanio e carbonio).
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Conta invece che Valentina Pitzalis, 38 anni, di Carbonia, abbia recuperato un po' di autonomia grazie all'arto artificiale studiato per lei dall'Officina ortopedica Maria Adelaide di Torino.
«Il prossimo passo sarà farmi da sola la piega con il phon», spiega con entusiasmo affinato da anni di resilienza, mentre corre in aeroporto per tornare in Sardegna dai genitori, Matilde e Franco.
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«Non potrò mai essere di nuovo autosufficiente. La protesi è fantastica, mi garantisce 14 movimenti, ma non è impermeabile. Quindi per lavarmi, per esempio, avrò sempre bisogno dell'aiuto di un'altra persona. Però, per una che ha perso la mano sinistra e può usare la destra solo al 60 per cento, poter di nuovo fare da sola cose semplici come tagliare una fettina di carne, è bellissimo. Non do più niente per scontato».
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La vita di Valentina Pitzalis era cambiata il 17 aprile del 2011, quando il marito, Manuel Piredda la ricoprì di benzina e le diede fuoco, nella casa di lui a Bacu Abis, nel Sud Sardegna.
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Lui morì nel rogo, lei sopravvisse, pagando un prezzo altissimo: perse una mano, l'altra fu irrimediabilmente compromessa, il volto sfigurato per sempre. Ci fu poi una coda giudiziaria incredibile, dopo che la famiglia di lui presentò un esposto che accusava Valentina di omicidio volontario, istigazione al suicidio e incendio doloso: inchiesta chiusa con l'archiviazione.
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«Ci sono ancora tanti leoni da tastiera, sui social, e quelli credo che continueranno a tormentarmi. Del resto esiste quella che si chiama vittimizzazione secondaria: sono sopravvissuta e non ho rinunciato a vivere, dunque sono colpevole», prosegue.
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Ci sono, però, anche tante persone che l'hanno aiutata fin dal primo momento. «La protesi l'ho pagata grazie a una raccolta fondi della Fondazione Doppia Difesa fatta nel 2012. La Asl sarda ha coperto un'altra parte. L'Officina ortopedica ha fatto il suo. E poi ho sempre accanto a me l'associazione Fare X Bene (farexbene.it), che mi accompagna dalla fase processuale.
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Come vittima scampata a un femminicidio lo Stato non mi ha mai riconosciuto nessun aiuto. Come persona con disabilità, nemmeno: il tabellario per le protesi è fermo al 1999, senza un supporto esterno non avrei mai potuto pagare i 40 mila euro per la mano nuova. In Grecia una protesi del genere è totalmente a carico del sistema sanitario nazionale».
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Neppure per gli interventi di chirurgia di ricostruzione si è sentita sostenuta. «Moltissimi vengono considerati come estetici. Eppure per un incidente sul lavoro gli aiuti ci sono. Ora, non posso storcere il naso per questa valutazione, perché il naso non ce l'ho più...», riflette con un po' di amarezza. «Però posso dire di essere diventata davvero Wonder Woman, adesso. E questo mi fa sentire ancora più forte».
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