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    ''SONO SOLO UN FROCETTO DI PROVINCIA CHE HA FINALMENTE COMPIUTO LA SUA TRANSIZIONE DIVENTANDO A QUASI 50 ANNI…'' - LA STREPITOSA INTERVISTA A FRANCESCO VEZZOLI DI MALCOM PAGANI, CHE GLI HA AFFIDATO ''VANITY FAIR'' PER UN NUMERO DA COLLEZIONE, E TRASFORMANDOLO NELL'INCUBO DELLA REDAZIONE, CON CHIAMATE NOTTURNE E CONTINUI CAMBIAMENTI - ''LA VITA, L’EDITORIA E IL GIORNALISMO NON DOVREBBERO ESSERE SOLTANTO INCHINI E BOMBONIERE. SE FAZIO MI CHIEDESSE UNA STRONZATA MI ALZEREI E ME NE ANDREI''


     
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    Malcom Pagani per www.vanityfair.it

     

    vanity fair diretto da francesco vezzoli vanity fair diretto da francesco vezzoli

    Chi è davvero Francesco Vezzoli? Il più grande artista italiano? Un genio? Un visionario? Un impostore? Un generoso? Un randagio? Un misantropo? Un nostalgico? Un modernista? Un ragazzo malinconico che ama mangiare in solitudine a Milano il 15 di agosto? Un uomo fortunato che non avendo «debiti sentimentali né mariti, amanti, cani o parenti» si prende il lusso di poter vedere alternativamente una televendita, Gomorra, «sono pazzo di Stefano Sollima», o un film di Truffaut sul suo letto alle 4 di mattina? «O forse», sostiene lui, «soltanto un frocetto di provincia che ha finalmente compiuto la sua transizione diventando a quasi cinquant’anni editor di Vanity Fair?». Dopo 2.481 messaggi dal 12 agosto a oggi, dirlo è difficile.

     

    Simone Marchetti gli ha affidato il compito di curare uno dei numeri più importanti dell’anno. Lui ha inizialmente accettato con entusiasmo. Poi giocato a fare la diva: «Simone, Paolo Sorrentino e Tommaso Paradiso sono molto più celebri di me, sei proprio sicuro che sia una buona idea?», infine gettato la maschera. Ha prima provato ad affamare chi scrive in un noto ristorante giapponese dove – si sa – il cibo è considerato una volgarità (eravamo a Roma per impostare il lavoro, faceva caldissimo come accade in estate e a saper leggere tra le righe, dell’ossessione che lo avrebbe dominato schiacciando sul suo progetto le nostre misere esistenze piegate all’inventiva e agli orari nottambuli, c’erano nell’aria immobile tutte le premesse), poi messo a dieta i sogni vacanzieri della redazione con chiamate continue, cambi di rotta, perfezionismi più o meno virtuosi.

     

    vanity fair francesco vezzoli vanity fair francesco vezzoli

    Da allora, nei nostri cuori, si sono succeduti uno spettro di sentimenti non sempre lineari. Vezzoli – non avevamo ancora idea di cosa ci attendesse – è prima diventato l’oggetto della nostra gratitudine, «grazie Francesco, che bello, è un vero onore», poi un’occasione di lamento davanti alla macchina del caffè (il lamento, dei giornalisti, è l’abito mentale proprio come tutte le idi di Marzo redazionali della storia hanno un erogatore di caffè come testimone oculare), infine un incubo: «Sai che stanotte mi ha scritto alle tre e trentacinque?». Ora che il meraviglioso esperimento che ha messo in piedi si è concluso, sollievo e gratitudine si danno la destra. Il giornale è stampato e – per dirla con David Foster Wallace – è stata un’avventura divertente che non faremo mai più. «Pensavate che fosse un gioco? Io ho provato davvero a fare il direttore. Ci ho messo impegno, voglia, ambizione».

     

    Quale ambizione, soprattutto?

    «Quella di immaginare un giornale che rispecchiasse le mie fantasie da bambino, che non parlasse di me con il sospetto dell’egoriferimento e che avesse una credibilità editoriale. Prima di scegliere un tema, ho studiato quelli dei miei predecessori a cui avevate affidato la curatela. Figure che – come le dicevo prima – sono molto più note e pubbliche di me. I numeri di Sorrentino, Paradiso e Genovese avevano una loro precisa narrazione. Io, come Francesco Vezzoli, che giornale avrei potuto fare?».

    marina cicogna francesco vezzoli e benedetta foto di bacco marina cicogna francesco vezzoli e benedetta foto di bacco

     

    Ce lo dica lei.

    «Sessanta pagine di moda su Rei Kawakubo, un reportage su Bret Easton Ellis che viene a Milano e a spese della Condé Nast riscrive Less Than Zero o magari un racconto su Rupert Everett che cerca compagnia su Grindr. Ma un giornale così, oltre a non passare per le maglie della censura, avrebbe venduto trenta copie. È chiaro che avrei potuto farlo “strano”, come direbbe Verdone, riempirlo di mille fantasie o parlare d’arte fino allo sfinimento. Ma non mi interessava».

     

    Cosa le interessava?

    «Poter diventare una specie di repertorio illustrativo per una griglia concettuale autonoma. Nella vita ho avuto la fortuna di poter passare molto tempo con figure mitologiche come Ingrid Sischy o Franca Sozzani, persone che pensavano al giornalismo come all’estensione di un immaginario senza confini. A una tavola imbandita in cui i talentuosi potessero sedersi e dipingere una tela collettiva tra una portata e l’altra».

    Una tavola l’ha imbandita anche lei.

    «Io ho seguito le regole di Maria Angiolillo, la dama dell’editoria che come insegna Roberto D’Agostino metteva intorno al desco santi, potenti e peccatori. C’erano sempre due tavoli da dieci, lì, all’ombra di piazza di Spagna, e non mancavano mai delle signore apparentemente inutili, ma invece fondamentali, che sareste voi giornalisti».

     

    Lei ne ha scelti alcuni con il tesserino nella tasca e ne ha inventati altri al loro esordio. In questo numero Emma Marrone intervista l’omonima Bonino, Isabella Ferrari fa lo stesso con Caterina Caselli e lei si confronta con Maria De Filippi.

    «Per questa trovata non mi daranno un premio. Andy Warhol ci aveva pensato molto prima di me e se fosse stato vivo oggi avrebbe detto: “C’è James Franco da intervistare, a chi lo diamo? A Kim Basinger?”. Ho solo scelto dieci figure che incarnassero la cosa più simbolica del loro specifico, ho apparecchiato questa tavola e ho dato al lettore il ruolo più privilegiato: una mosca che può volare sopra tutte le conversazioni».

     

    Sono tante e tutte diverse tra loro.

    francesco vezzoli e dago foto di bacco francesco vezzoli e dago foto di bacco

    «Ho provato a comporre una melodia piena di picchi. Tutti questi picchi messi insieme danno un risultato, ma non ho mai voluto eliminare quello che penso sia alla base del discorso giornalistico: lo scambio di punti di vista, la curiosità reciproca, la conversazione che una volta letta ti spinge a cambiare idea o a emozionarti. C’è dialettica e profondità tra Marrone ed Emma sulla problematica della malattia e c’è scoperta nel confronto tra Isabella Ferrari, diciottenne imprigionata nel ruolo di ninfa vanziniana poi capace di evadere da chi avrebbe voluto incasellarla in una sola dimensione, e Caterina Caselli, la nostra Katharine Graham.

     

    Alla morte del marito, Katharine aveva ereditato nello scetticismo il Washington Post per renderlo in seguito ancor più pazzesco di prima e Caterina Caselli ha fatto lo stesso con la Sugar astraendosi in fretta dalle scene per rivelarsi una straordinaria imprenditrice e talent scout. Donne capaci di rilevare da un uomo potente entità potenti e di magnificarle ancora di più. Donne che nell’immaginario gay, il mio immaginario, sono alla stregua di divinità assolute».

     

    Tutto il numero è dedicato alle donne italiane. Donne iconiche che lei ha rappresentato con opere ad hoc.

    francesco vezzoli scatenato a photoshow 3 francesco vezzoli scatenato a photoshow 3

    «Tutte le icone sono prigioniere della loro riconoscibilità e visto che alcune delle donne intervistate le conosco e hanno da un lato una personalità che è larger than the image, ma dall’altro sono anche madri e sorelle, mi piaceva l’idea di portarle fuori dalla loro comfort zone. Il numero è un’operazione concettuale che ovviamente è reso vivo dalla risposte delle donne che abbiamo interpellato, ma avrebbe avuto senso anche se Elena Ferrante avesse opposto alle domande di Daria Bignardi, come in un film di Mel Brooks, una serie di no uno dopo l’altro. Nella messa cantata del giornalismo è solo il rifiuto a fare notizia. Se ti alzi e te ne vai, se non rispondi, se giri le spalle, catturi l’attenzione. In certi ambiti non accade quasi mai».

     

    Le sembra un male?

    «È un indizio. Si è mai alzato qualcuno per andarsene da Fabio Fazio? No. Ed è un peccato. Magari venisse fuori un alito di vita, uno scazzo, una contrapposizione. La vita, l’editoria e il giornalismo non dovrebbero essere soltanto inchini e bomboniere. Se Fazio mi chiedesse una stronzata mi alzerei e me ne andrei e forse non sarebbe neanche una questione di coraggio, perché non posso negare che il sistema di potere di Fazio non ha nessun potere sul mio sistema».

     

    Siamo tutti contraddittori?

    francesco vezzoli francesco vezzoli

    «È la vita a esserlo. Proprio come il desiderio. Ho messo le donne al centro del numero che ho curato ma non ne ho mai provati verso le donne in senso carnale. Ho sempre pensato che le mie pulsioni per i maschi erano talmente genuine e potenti da cancellare ogni altro desiderio verso l’universo femminile. La donna si sarebbe meritata un desiderio all’altezza del desiderio che provo per un maschio, mi sembrava ingiusto darle un desiderio di seconda mano. Certo, quando Mario Testino mi fotografò con Daria Werbowy, me la sarei mangiata di baci, ma non c’era impeto né urgenza. E il sesso è impeto e soprattutto urgenza».

     

    Non va d’accordo con la monogamia.

    «La monogamia è un’invenzione preoccupante, difficilissima da gestire, con filiazioni incerte».

    Un dono del senso di colpa cattolico?

    «Ma io penso che tutte le colpe le abbia più o meno il capitalismo e che un’azienda possa tenere insieme le famiglie molto più di quanto non possano farlo i figli. Le uniche coppie che resistono, salde e amorose, sono quelle che hanno costruito insieme qualcosa. Il commovente frutto di un progetto, di due ambizioni condivise».

     

    Qual era il progetto Vezzoli nell’ambizione dei suoi genitori?

    «Era l’amore. Avevo otto anni e loro parlavano ai loro amici delle loro vite. Lui, papà, giocatore di bridge e un po’ playboy. Lei, bionda, perfettamente pettinata, sorridente. A un certo punto uno dei loro amici gli domandò: “Ma in tutto questo, cosa c’entra Francesco?”. Lui la guardò intensamente e disse: “Come cosa c’entra? Francesco è il frutto dell’amore”. Un figlio che ascolta una cosa simile si sente come minimo molto amato».

    La prima immagine di donna che ricorda?

    «I primi ricordi si hanno più o meno verso i quattro anni e io ho questa memoria precisa: è il 1975, sono sul divano della nonna e vedo Mina e la Carrà in Milleluci in una tv in bianco e nero».

     

    Che cosa hanno rappresentato le donne nella sua vita?

    FRANCESCO VEZZOLI FRANCESCO VEZZOLI

    «Moltissimo. Io ero un bambino venuto al mondo dopo un gravissimo lutto familiare che aveva turbato la mia famiglia in maniera molto profonda. Il mio arrivo, accolto almeno inizialmente come un evento conflittuale, poco dopo ha rappresentato un soffio di vita nuova. I miei genitori mi affidavano continuamente alle due nonne: quella materna, di ascendenza altoborghese, e quella paterna, dalle origini più umili. Le due si volevano molto bene e le vacanze a Riccione erano un rito che riuniva entrambi i gruppi e appianava le differenze. Si partiva in nove, a bordo di un furgone a noleggio con nove posti. Le nonne davanti, le grandi valige, il mio sguardo stupito e i miei settimanali preferiti, Novella 2000 Stop, da divorare tra un tratto di strada e l’altro, subito dietro».

     

    Leggeva i settimanali a nove anni d’età?

    «Quando si trattò di partire per andare a trovare i parenti in America sono corso da mia nonna Mimì e le ho detto: “È vero che mi porti allo Studio 54?”. So che sembra una storia inventata, ma è vera. Nei miei ricordi di bambino la carta stampata era il veicolo per sognare, per fare i capricci, per andare altrove con la fantasia. Pochi giorni fa sono tornato a Riccione. Mi si è avvicinata un’ombra del passato e mi ha detto: “Mia madre si ricorda di te con un libro di Gianni Rodari e una copia de la Repubblica sotto il braccio”. Come avrebbe detto il suo amico Tommaso Paradiso, il misfatto si compiva sotto il sole di Riccione e io venivo farcito, proprio come un tacchino ripieno, di una quantità di immaginario forse eccessivo. Viziato da una delle due nonne rimasta vedova troppo in fretta, abbigliato come certi bambini già adulti che in giacca e cravatta furoreggiavano a nove anni al Costanzo Show, con uno sguardo troppo triste e troppo adulto per la mia età, con i miei completini, agli occhi degli altri dovevo apparire un prodotto simile».

    FRANCESCO VEZZOLI FRANCESCO VEZZOLI

     

    Torniamo alla passione per i giornali?

    «Dei magazine ovviamente sono un feticista e devo ai magazine molte delle scelte della mia vita. Ho sempre frequentato gente più adulta di me che possedeva sterminate collezioni di i-D o di The Face. Io quei giornali li studiavo e un giorno, invece di andare a Londra con loro, li ho salutati e sono andato alla Saint Martins per conto mio. Attraverso quei giornali, in assenza di Internet e di Instagram, esisteva un luogo dove potevo gravitare con gioia e avvertire un’appartenenza magari inventandomi un ruolo utile a esistere».

    Lei su Instagram però non c’è.

    «Su Instagram ci sono per spiare e, non è una battuta, spio per motivi puramente antropologici. Essendo uno spione non posso mandare un direct message a uno che mi piace: posso solo guardarlo senza divieti, che è meglio».

     

    Cos’è per lei il divieto?

    «Non lo so perché nella mia vita non l’ho mai provato e, almeno dai miei affetti più prossimi, una vera censura non l’ho mai subita. Mi censuravano i professori che al liceo non discutevano certo la mia sessualità, un orientamento che al limite pagavo con la solitudine, ma la mia era presunzione. Non ero neanche un fighetto all’epoca, ero peggio. Ero uno stronzo».

    Oggi è ancora uno stronzo?

    «No, non credo. Allora mi dovevo difendere, adesso, a cinquant’anni, da cosa mi devo difendere?».

    Dalla stessa solitudine che avvertiva al liceo?

    «La solitudine, ma l’ho capito con il tempo, è sempre un po’ una scelta. Se vuole il sesso sa dove trovarlo, se vuole l’amore deve impegnarsi, ma alla fine trova anche quello. Se escludiamo tutti quelli che sono colpiti da lutti fisici ed emotivi, per gli altri, per gli abili e arruolati, c’è un mondo in cui è possibile decidere di essere ciò che si vuole. A patto, ovviamente, che si rispetti la neoreligione del corpo».

    achille bonito oliva con francesco vezzoli achille bonito oliva con francesco vezzoli

     

    Ce ne parli.

    «Siamo tornati indietro agli stereotipi, ai luoghi comuni. Come dice il commendator Fenoglio all’amante di Alberto Sordi ne Il vedovo, il corpo è ritornato centrale. Il discorso di Fenoglio: “Signorina, una con un corpo come il suo avrebbe avuto una carriera garantita”, oggi è tornato a valere in maniera predominante».

     

    La impressiona? Le sembra una barriera alla libertà di scelta?

    «Sarà catalanesco o lapalissiano, ma secondo me ognuno è libero nella misura in cui sceglie di non essere prigioniero. Esistono dei modelli e tu puoi anche decidere che quei modelli non abbiano un impatto su di te: ma devi fare un grande lavoro su te stesso perché questi modelli, oggettivamente, ti assediano. Una volta c’erano le tentazioni del dottor Antonio: “Bevete più latte/il latte fa bene”, mentre adesso gli slogan vellicano la muscolosità e venerano la forma fisica come una seconda religione. La transizione in cui si tende a cambiare radicalmente il proprio corpo, una transizione che abbraccia soprattutto gli uomini, non modifica solo l’estetica, ma cambia in profondità anche i caratteri. Le pubblicità di oggi, piene di corpi in cui il messaggio del before and after è fin troppo esplicito, hanno a che fare con l’identità. Cambia il tuo modo di parlare, la tua relazione con gli altri, il tuo grado di aggressività, non solo la tua taglia di pantaloni».

     

    Cosa se ne deduce?

    «Delle due l’una: o milioni di uomini avevano a loro insaputa un Arnold Schwarzenegger dentro di sé oppure sono condizionati da un universo che impone di indossare un immaginario».

     

    FRANCESCO VEZZOLI FRANCESCO VEZZOLI

    L’antidoto?

    «Bisogna essere così sicuri di quello che si costruisce da non aver bisogno di mettere in atto questo tipo di transizioni».

    Lei ha scelto di mettere sulla copertina di Vanity una donna transgender in un servizio firmato da lei. Cosa voleva dire?

    «Che le trans sono meravigliose e anelano esprimere una femminilità gloriosa, fiera e desiderabile. In questo servizio fotografico non le volevo grottesche come quelle di RuPaul, né tristi e pauperiste sul ciglio di una strada in una Suburra di confine. Volevo alzare la posta e averle viscontiane, eleganti, grandiose. È il mio modo di inserirmi nel dibattito sulla transessualità glorificando la loro identità in una maniera plausibile e visivamente fiammeggiante».

     

    Cosa è per lei il conformismo e quanto ne siamo permeati?

    «È conformismo anche sventolare la bandiera dell’anticonformismo, ma per me il conformismo peggiore è quello dei rivoluzionari che a proposito di transizione sono arrivati alle poltrone. Quello delle coppie gay con i bambini agli Hamptons e le foto del matrimonio sulla credenza: il matrimonio è un diritto che abbiamo voluto e che ci siamo conquistati, ma come dice Arbasino i matrimoni sono roba da notai».

     

    I matrimoni saranno anche roba da notai, ma i diritti sono diritti.

    «E che fa? Mi dà una lezioncina? Io per me un matrimonio non lo voglio, ma non mi deve passare neanche per la testa di impedire a qualcuno di farlo: devo combattere strenuamente perché chiunque abbia quel diritto. Se poi compiere queste scelte ha portato qualcuno in un cul-de-sac piccolo-borghese, è una libera scelta di chi la scelta la compie. I libri li hai e Madame Bovary è sempre lì, a portata di mano».

    FRANCESCO VEZZOLI E FRANCA SOZZANI A VENEZIA FRANCESCO VEZZOLI E FRANCA SOZZANI A VENEZIA

    Cosa le fa paura oggi?

    «Il politicamente corretto. È forse vero come sostiene Michele Masneri che in Italia forse non sia mai arrivato, ma l’Italia è uno spicchio di mondo neanche troppo vasto. Ecco, pensandoci meglio e allargando il discorso, il politicamente corretto prospera dove c’è la paura di esprimersi liberamente».

     

    Ci faccia un esempio.

    «L’America. Non l’ho mai vista impaurita come oggi, tesa, cupa, isterica, violenta. Ogni dibattito è avviluppato sulla correttezza. Sulle regole, anche lessicali, utili a non offendere le minoranze. L’offesa è odiosa, ma la cappa conformista non è da meno. Prenda le regole per gli Oscar. Gettano chiunque in uno stato di prostrazione, a destra come a sinistra, direbbe Giorgio Gaber. I produttori non sanno più da che parte buttarsi, che film fare per non essere aggrediti all’origine. Aver paura delle reazioni che suscita un film non solo è autocensura indotta – e non ci vuole un genio per capirlo – ma ci restituirà dei film senza contrasto, senza dibattito, di una noia mortale. Ma lei si immagina se qualcuno in Italia andasse da Nanni Moretti e gli dicesse: “Nanni, perché non vai a girare un film sui froci al Pigneto?”».

     

    Lascio la parola frocio?

    «Sì, se la dice un frocio va benissimo. L’Academy ha paura esattamente come in questo momento lei ha paura di scrivere una parola detta da me. La responsabilità diventa subito collettiva, quasi universale, e per me questo rappresenta un problema. Questo accadeva anche con il #MeToo. Si confondeva un problema reale prima con una crociata, poi con una caccia alle streghe così violenta da costringere a intervenire Catherine Deneuve: “Lasciateci un po’ di pericolo della seduzione”, scriveva su Libération, e io non mi sento di darle torto».

    L’America dove lei ha vissuto a lungo andrà presto al voto in una situazione di paura.

    FRANCESCO VEZZOLI FRANCESCO VEZZOLI

    «L’America vive una fase che è paragonabile ai nostri anni di piombo. La popolazione ha paura dei propri politici e i politici sono terrorizzati dal potenziale esplosivo della ribellione e delle rivolte. C’è una tensione politica enorme e dove regnano tensione e terrore, il dibattito politico culturale è congelato».

     

    Colpa di Trump?

    «Trump non c’entra. Il problema non è disprezzare Trump, non mi costa nessuna fatica, ma andare oltre e capire. Il punto non è detestare, ma comprendere ciò che accade. Capire è più difficile, meno semplicistico, implica uno sforzo. Il fatto che l’America sia impossibilitata, non incapace, ma proprio impossibilitata ad avere un dibattito sereno è triste e al tempo stesso restituisce una sorta di grande chance all’Europa per diventare l’epicentro di un dibattito pubblico meno isterico».

    Una chance che sarà sfruttata?

    «Abbiamo solo bisogno di una nuova Maria Angiolillo che invita ai suoi tavoli pensatori e politici degni di questo nome».

    francesco vezzoli guarda la rai francesco vezzoli guarda la rai

     

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