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ADDIO A PAULA REGO E AL SUO INCUBO VISIONARIO - RACHELE FERRARIO SVELA L’ARTE DELL’ARTISTA PORTOGHESE, TRA FIABA E MONDO REALE - “LA PITTURA È EROTICA. LO FAI CON LA TUA MANO. È LA STESSA SENSAZIONE DI ESSERE POSSEDUTI DAL DESIDERIO”, HA DICHIARATO. ED ERA ANCHE UNO DEI MODI PER ESSERE LIBERA IN UN MONDO CHE ALLE DONNE IMPONEVA COMPITI O RUOLI PRESTABILITI: LA CURA DELLA CASA, DEL MARITO, DEI VECCHI - ECCO DIPINTI IN CUI SI MISCHIANO REGISTRI STILISTICI DIVERSI, DALLA SATIRA DI GOYA AL FUMETTO DI WALT DISNEY…”

Rachele Ferrario per Dagospia

rachele ferrario

 

Lo spaventapasseri è una tra le opere più irriverenti che Paula Rego abbia dipinto: una donna crocefissa sulla collina del Golgota, le mani guantate di bianco che le penzolano dalla croce, al posto del volto il teschio di una mucca; in basso alla croce la testa di un maiale e tutt’intorno un grillo parlante femmina, la morte vestita da contadina con un cappello lezioso e la falce scura. Di fianco una donna sogna. 

 

Paula Rego

Paula Rego ci sta raccontando il suo incubo visionario. “Disegnare è un’attività erotica. Lo fai con la tua mano. È la stessa sensazione di essere posseduti dal desiderio”, ha dichiarato. Ed era anche uno dei modi per essere libera in un mondo che alle donne imponeva compiti o ruoli prestabiliti: la cura della casa, del marito, dei vecchi, la donna ballerina che Paula Rego ha rappresentato come Struzze ballerine

 

 

S’è ritratta davanti allo specchio con una maschera da scimmia, ironica e disarmante. Il suo studio sembra quello dei grandi maestri che assemblano maquettes che servono alla costruzione delle immagini. Paula Rego ha vissuto in un mondo in cui la scenografia era ancora costruita e non guardata attraverso lo schermo. 

 

Paula Rego

Nella tela in cui s’è ritratta nel suo studio ha il candore e la potenza dei pittori naif: ieratica come una madonna (ricorda alcuni dipinti messicani) gli abiti folcloristici rosso e viola, stivaloni neri. Alle spalle calchi in gesso; di fianco a se stessa ha dipinto una donna con una zappa e una mantide, l’animale che dopo l’accoppiamento ammazza il compagno. C’è la fiaba e c’è il mondo reale.

 

Il contatto con lo spettatore, far capire ciò che dipingeva. Questo era importante per lei perché “se il pubblico capisce il tuo lavoro, allora capisce molto bene anche te”, ha detto nel film che ha girato con suo figlio. Delle immagini era innamorata come solo gli artisti sanno esserlo. Non a caso era amica di David Hockney, tra i migliori ritrattisti contemporanei e sperimentatori di nuove tecniche. 

 

 

Paula Rego

Nata in Portogallo nel 1935, ma inglese d’adozione, Paula Rego a quattro anni già voleva dipingere, a otto si sentiva artista e a diciassette era allieva nello studio di Lucien Freud da cui ha ereditato la maestria nella pittura la sensualità cui lei ha aggiunto la capacità di dipingere figure al limite del caricaturale; i suoi interni, le donne, i bambini gli uomini fantocci nelle loro mani non provocano, inquietano.

 

Il potere delle immagini Rego l’ha imparato da bambina, nella solitudine dell’infanzia vissuta da figlia unica con la nonna e una zia in Portogallo, lontano dai suoi genitori. Le fiabe, i fairytales, erano il suo mondo, non così distante dalla realtà degli adulti. Da grande Paula ha dipinto tele dedicate a Pinocchio o a Biancaneve. Evocano abusi, giochi psicologici e le ferree regole delle convenzioni. 

 

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Pinocchio è un bimbo nudo di spalle, coi pugnetti chiusi dietro la schiena; sta davanti alla fata autoritaria, che di fiabesco ha solo la coroncina e la bacchetta magica. Biancaneve invece di essere la più bella del mondo è un uomo bambino, grottesco nella sua sottomissione davanti a una donna che gli sta togliendo enormi mutande da bambina. 

 

Dipinti in cui si mischiano registri stilistici diversi, dalla satira di Goya al fumetto di Walt Disney. L’infanzia è rappresentata come paura, istinti violenti, affetti ambigui, cui non è estranea la mancanza di libertà in un paese come il Portogallo ai tempi della dittatura di Salazar.

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Paula Rego sapeva davvero raccontare storie, non tanto le sue, o non solo le sue. Sapeva essere incisiva nel farlo tanto che il Financial Times l’ha riconosciuta tra le voci più influenti della contemporaneità, mentre la sua mostra alla Tate Modern ha fatto conoscere anche al vasto pubblico le sue donne accovacciate per terra che si comportano come cani, “Dogwomen” (1990) e quelle sdraiate che si contorcono dai crampi, dal rimorso e dalla vergogna per un aborto clandestino contro il quale lei si è battuta a lungo dopo che il referendum per la legalizzazione in Portogallo era stato disertato: Rego pensava che l’aborto fosse anche una questione maschile: “Non restiamo incinte da sole, o no?”.

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Il suo sguardo sulla condizione femminile o sulle situazioni di disagio familiare, però, non è mai morale, semmai politico, dissacrante, volutamente eccessivo proprio come le grandi opere e il “retablo” ora in mostra alla Biennale di Venezia, una parodia quasi teatrale. Questo ha fatto Paula Rego fino alla sua morte a 87 anni.

 

Ha privilegiato alla propria le storie dell’universo femminile, fino a diventare una voce autorevole nelle battaglie a favore di ogni individuo. 

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