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Paolo Tomaselli per il Corriere della Sera
Mancava l' Allegri scrittore. Adesso c' è anche quello. Da Vasco Rossi a Giorgio Gaber, da Galeone all' amore per i cavalli, fino ovviamente a Ronaldo («Averlo è una gioia, è diverso dagli altri, è un maestro, a volte sembra assente ma in realtà è sempre sul pezzo»): «È molto semplice» è il manuale delle 32 regole del calcio secondo Max, in cui tutte le sue anime - quella anarchica da «Amici Miei» e quella di allenatore alla corte di Berlusconi e Agnelli - diventano una cosa sola.
Il cuore del libro sembra questa frase: «C' è qualcuno che vuole rendere il calcio più difficile e mi fa andare fuori di testa»: ce l' ha più coi colleghi o coi commentatori?
«Non ce l' ho con nessuno, dico solo che si rende complicato ciò che è semplice. La semplicità è la cosa più complicata, ma si sta andando verso una direzione non corretta, perché complicare le cose rende ancora più difficile il lavoro.Racconto la mia esperienza di vita, da bambino fino a oggi, e la mia esperienza di calcio, da giocatore e da allenatore. Spero che sia d' aiuto, che serva a qualcuno, non solo nel calcio, ma anche a livello manageriale. Che sia di ispirazione».
È interessante sentirla parlare del suo «sguardo da bambino»: l' ultima recente paternità le ha ridato questa visione?
«Una cosa che mi ha dato l' arrivo dei figli è sicuramente la pazienza, che da giovane avevo poco e niente. E poi mi hanno riportato un po' a essere bambino».
Esalta i concetti di «squadra cinica» e di «allenatore aziendalista». Perché per altri sono quasi degli insulti?
«Perché hanno modi di vedere diversi dal mio. Un allenatore aziendalista è un allenatore che porta risultati. Io mi reputo un manager dell' azienda Juventus, che alla fine dell' anno deve portare a casa il risultato, non solo a livello sportivo, ma anche a livello di crescita dei giocatori. Risultati che incidono alla fine anche sul bilancio della società».
Le piace il ruolo di allenatore manager alla Ferguson: in Italia sarà mai possibile?
«Io spero di sì, perché vorrebbe dire rimanere tanti anni alla Juve».
Perché la citazione di Gaber e dei suoi «polli di allevamento»?
«Perché purtroppo si va verso un' idea di calcio in cui i ragazzi non vengono fatti più pensare. Ma se si fanno crescere dei ragazzi "non pensanti", poi chi smette di giocare a calcio cosa fa nella vita?».
«I moduli non servono a niente. Contano i giocatori buoni». Ma l' allenatore che non ha calciatori forti a disposizione cosa deve fare?
«Deve dare un' organizzazione di gioco e avere la lucidità di capire fino a dove possono arrivare i giocatori che ha a disposizione. Quelli che possono arrivare a 7 e devono dare 7, quelli che possono arrivare a 10 devono dare 10. L' importante è che l' allenatore conosca le qualità e il punto fino a dove può arrivare il giocatore che ha davanti. Non possono tutti fare le stesse cose, questa è una legge di vita».
«Sono della scuola Galeone» sottolinea. Cosa ha imparato?
«Sono stato otto anni con lui, è stato il mio allenatore e poi ho avuto anche la fortuna di lavorarci insieme come collaboratore tecnico, imparando tante cose. L' insegnamento più importante? La semplicità nel trasmettere i concetti alla squadra».
«L' Olanda del '74 non ha saputo cogliere il momento dell' azzardo»: è un esempio di sistema che limita il singolo, visto che poi lei magnifica il genio di Cruyff?
«L' Olanda è l' esempio di un sistema in cui sono stati costruiti per molti anni giocatori singoli molto bravi, poi che non abbiano vinto è un altro discorso. Il calcio olandese era un calcio totale perché tutti sapevano giocare in tutte le zone del campo».
Il fatto che sia tornato competitivo, come dimostra l' Ajax che affronterete tra pochi giorni è merito quindi dei singoli talenti più che del sistema?
«Dei singoli talenti all' interno di un sistema che insegna ai ragazzi a giocare a calcio, che non li "meccanizza"».
Tra i suoi cavalli di battaglia va sempre forte il «cazzeggio creativo». Come mai?
«È importante perché ti stacca dal lavoro quotidiano e ci sono momenti in cui mi serve: non si può pensare di lavorare 24 ore su 24».
Può fare un esempio dell'«empatia brutale» di cui parla?
«È molto semplice: al giocatore do quello che gli serve ma non quello che vuole».
«Se perdessi voglia di crescere mi dedicherei ad altro»: cosa gliela può far perdere?
«Non lo so. In questo momento ho passione e mi diverto. E quindi vado avanti».
La compiacenza di cui parla può essere sinonimo di presunzione: la Juve l' ha mai avuta visto che a Cardiff - come scrive nel libro - eravate «troppo focalizzati sulle certezze»?
«Il compiacersi e la presunzione ti possono far perdere il senso della realtà, non ti fanno mettere a fuoco quelli che sono i punti di forza dell' avversario. Nella finale col Real abbiamo avuto eccessivo ottimismo e sicurezza».
Come ricorda lei, Cruyff è anche l' autore della frase «perché non dovresti battere un club più ricco»: in Europa la Juve si trova meglio come outsider o da favorita?
«In Europa devi vincere, come devi vincere in Italia».
Si capisce che dietro la sua calma c' è un lavoro interiore notevole, necessario per gestire il gruppo e parlare coi media: è autodidatta?
«A questo livello bisogna avere al proprio fianco dei professionisti con i quali ti confronti e che ti aiutino. Poi certo l' istinto fa la differenza».
Perché nel libro - a parte il concetto dei «cavalli al prato» - non ha voluto soffermarsi sulla gestione delle personalità più forti nello spogliatoio, con cui a volte si è scontrato?
«Perché sono cose che restano nello spogliatoio. È comunque normale che in quell' ambito ci sia un confronto, a maggior ragione con i grandi campioni. Questo non significa che rimangano dei rancori».
«Dai cavalli ho imparato molto». E dai calciatori?
«Ho imparato tanto dai cavalli perché è un mondo in cui ci sono similitudini con il calcio. Dai calciatori ho imparato tantissimo, perché ho avuto la fortuna di allenare molti campioni. E, siccome sono curioso, sapere come ragionano mi ha aiutato a crescere».
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