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Nicoletta Orlandi Posti per “Libero quotidiano”
Guardare Andy Warhol da un' altra prospettiva, quella capace di mettere in luce il suo essere non solo «sismografo dei suoi tempi», ma anche anticipatore dei nostri. È quello che si propone di fare la mostra che apre oggi all' Orangerie della Villa Reale di Monza. Lo si capisce subito, a partire dal sottotitolo: «L' alchimista degli anni Sessanta» voluto dal curatore Maurizio Vanni. E, sì.
Andy Warhol è un moderno alchimista che trasforma - o più correttamente trasmuta - in oro tutto ciò che vede: i protagonisti della cronaca, gli oggetti di uso quotidiano, ma anche mucche, tartarughe, fiori, diventano un qualcosa che attrae, che tutti vorrebbero avere, che brilla come il metallo più prezioso. In questo, al pari di tante altre sue geniali intuizioni, fu precursore dei nostri tempi. Fu lui il primo a trasformare l' opera in un prodotto culturale, fu lui il primo a definirsi non artista, ma "businessman dell' arte" anticipando lo stato attuale del mercato del contemporaneo. Nel cogliere desideri, illusioni e angosce di allora Warhol ha di fatto introdotto visioni e strategie operative che sono tutt' oggi evidenti nella nostra società iper-moderna confermando la sua lungimiranza nella capacità di confrontarsi con la cultura di massa, l' era dell' informazione e dell' imperialismo tecnologico globale.
Quando internet e i cellulari nemmeno esistevano, Andy Warhol disse: «In futuro, ciascuno sarà famoso nel mondo per 15 minuti». Correva l' anno 1968, e il padre della pop art aveva appena urlato al mondo la sua profezia: il rincorrere una fama virtuale che dura il tempo di una sigaretta, è divenuta l' occupazione quotidiana di milioni di internauti che fanno dei social la vetrina autoreferenziale della propria vita, fatta di selfie, di vacanze, di aperitivi, tutto immancabilmente documentato da resoconti fotografici che danno l' idea che tutti siano felici e soddisfatti. Realtà o finzione?
LE MASCHERE Tutto è finzione per Warhol e non c' è niente di male a indossare di volta in volta una maschera che ci faccia sentire a proprio agio in una determinata situazione. «Ho sempre pensato che mi piacerebbe che la mia lapide fosse vuota. Nessun epitaffio e senza nome. Beh, in realtà, mi piacerebbe che dicesse, "Finzione"», scriveva 12 anni prima di morire. La mostra alla reggia di Monza racconta tutto questo. «Andy Warhol ha vissuto lucidamente il caos di una vita estrema e dissoluta», fa notare Maurizio Vanni, «ha pianificato la sua ascesa sfruttando le occasioni che solo l' America degli anni Sessanta poteva offrire. Fu uno sciamano dei tempi moderni».
Poi Vanni spiega: «Non chiedeva più che cosa fosse l' arte e a che cosa servisse, ma quale fosse la differenza tra due cose identiche, una delle quali era arte e l' altra no».
DA MARILYN A MAO Ecco allora le fotoserigrafie e le serigrafie in mostra: quelle famose di Marilyn, Mao, Liza Minnelli, Jackie e John Kennedy e quelle di personaggi qualunque che transitavano nella sua Factory (come il bellissimo Billy Squier), ma pure fiori, nature morte, animali che venivano riprodotti tante volte quante desiderava, sempre uguali a se stessi, ma di fatto ogni volta diversi. «Non è la vita una serie di immagini che cambiano sempre eppure sempre si ripetono?», sosteneva. Ma l' esposizione in Brianza è da vedere anche per due sezioni, praticamente inedite. Quella curata da Marco Bettani su Warhol produttore musicale e ideatore di cover (sono esposte le copertine di 60 album da lui inventate: da quella celeberrima con la banana gialla per i Velvet Underground a quella altrettanto famosa per i Rolling Stones, ma anche quella per Loredana Bertè, Miguel Bosè e cantanti meno noti) e quella curata da Vladimir Luxuria sulla rivoluzione sessuale di cui Warhol fu testimone. Unica pecca della mostra, che si può visitare fino al 28 aprile, l' allestimento: le opere, molte delle quali eccezionali come la serie dedicata ad Anderson e alle favole, non sono sufficientemente valorizzate.
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