RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Paolo Baldini per corriere.it
Gabriel Omar Batistuta, 50anni, detto Batigol e Re Leone, tra i 5 migliori attaccanti al mondo quando era in attività, in Italia ha giocato per Fiorentina, Roma e Inter. Sposato da quasi 30anni con Irina, ha 4 figli (foto Alberto Conti)
«Sto bene, sì». Quando la favola sfuma nel dramma il Re Leone sa come piazzare la palla: «Sì, ora sto bene». Dice che il calcio gli ha regalato tanto. Più di quanto si sarebbe mai aspettato. Ma per il calcio ha anche pianto. Lacrime di gioia, dopo un gol da Pallone d’oro. Di commozione, «per l’affetto e la stima che ho ricevuto dai tifosi, ovunque sono andato». Di rabbia, «per le maldicenze e i torti subiti». Per 17 anni Gabriel Omar Batistuta, 184 gol in nove anni alla Fiorentina, 30 gol e uno scudetto in due stagioni e mezza alla Roma, 77 partite e 54 reti nella nazionale argentina, ha convissuto con un dolore assoluto.
«Le mie caviglie sono fragili per costituzione. Non ho mai potuto giocare al cento per cento. Sono stato torturato dalle distorsioni. Andavo avanti a furia di infiltrazioni e antidolorifici. L’impegno con la società, con il pubblico, con me stesso era troppo importante. Scendevo in campo in condizioni impossibili. Ero il Re Leone, Batigol il guerriero e stringevo i denti».
Il tormento e la rabbia
Il conto, salato, è arrivato a fine carriera. «Appena smesso, mi sono ritrovato con le caviglie a pezzi. Non avevo più cartilagine. Osso contro osso, su un peso di 86-87 chili: il minimo movimento diventava un tormento. Lo stesso problema di Van Basten, che ha detto basta a 28 anni. Certi giorni non riuscivo a scendere dal letto. Piangevo di rabbia e mi dicevo: non può finire così». Per 17 anni, con alti e bassi, ha combattuto un nemico invincibile.
«La mia famiglia mi reclamava: ora puoi stare con noi. E invece soffrivo, stavo male. Così male che sono andato da un amico medico e gli ho chiesto di amputarmi le gambe. L’ho pregato, ho insistito. Gli ho detto che quella non era più vita». Un mese fa a Basilea gli è stata applicata una protesi alla caviglia sinistra dal team del professor Beat Hintermann e a Firenze sta ora conducendo una faticosa riabilitazione.
VITTORIO CECCHI GORI BATISTUTA
La riabilitazione e il docufilm
«Una soluzione che rincorrevo da almeno sei-sette anni. Fra 40 giorni, tolto il tutore, sapremo se il dolore è scomparso e potrò finalmente camminare come una persona normale». Sull’odissea di Batigol e i retroscena della sua formidabile carriera, Pablo Benedetti ha realizzato un docufilm, El numero nueve, prodotto da SenseMedia, che sarà presentato in anteprima mondiale il 23 ottobre, al festival Alice nella città durante la Festa del Cinema di Roma.
Il Re Leone dice che a fare l’attore non ci ha mai pensato, che l’occasione è arrivata, inaspettata, a 50 anni. Spiega che i gol non hanno mai riempito completamente la sua esistenza. Che ha sempre conservato una parte segreta di sé, disponibile solo per Irina, «la chica hermosa che aspettavo all’uscita da messa quando eravamo ragazzi e con la quale, fra poco, festeggerò trent’anni di matrimonio», e per i quattro figli, tutti maschi: Thiago 28 anni, Lucas 23, Joaquin 21 e Shamel 16. «Thiago fa l’attore, vive da solo a Baires. Lucas lavora nell’azienda di famiglia. I primi tre sono nati a Firenze, Shamel in Qatar quando giocavo per l’Al-Arabi e la mia carriera stava finendo».
«Il calcio? Da ragazzo preferivo studiare»
Racconta che quando era un ragazzo, ai tempi del Grupo Alegria e delle partite in piazza dei Friulani, tirar calci a un pallone non gli sembrava il modo migliore per guadagnarsi da vivere: «Preferivo studiare: la matematica, la fisica, la chimica. Avevo una buona memoria visiva. Facevo pallavolo, basket, tennis. Il calcio per me allora era solo un bel gioco, non una prospettiva. Scappavo via dagli allenamenti. E non perché fossi una testa calda: non ci credevo abbastanza».
Quasi un presagio: «Temevo di infortunarmi. Oddio, pensavo, se mi spacco e mi ritrovo senz’arte né parte che faccio?». Torna spesso agli insegnamenti di papà Osmar: rispetta gli impegni, sii responsabile, diffida delle cose troppo facili. «Quando ero famoso erano tutti amici. Mi avvicinava gente che non conoscevo. Opportunisti, spesso. Ma io non ero disposto a far entrare chiunque nella mia vita».
La “laurea” conferitagli da Maradona
Diego Maradona lo ha definito «il centravanti più forte che abbia mai visto giocare». Per i critici è uno dei cinque attaccanti top della storia del calcio. Lui scherza: «Senza questo dannato problema chissà che traguardi avrei potuto raggiungere. Il Pallone d’oro, no. È legato alle vittorie della tua squadra. Ma in qualche momento me lo sarei meritato». Una carriera speciale. «Non ero un talento. Solo potenza, all’inizio. Sono migliorato con il tempo. A fare sul serio del resto ho cominciato tardi». Non ha rimpianti: «Tutto quello che è successo l’ho voluto io. Nessuno mi ha obbligato: avrei potuto prendere il mio tempo, gestire meglio gli infortuni, curarmi senza fretta. Invece non l’ho fatto, è andata così».
L’amore per Irina, da 30 anni al suo fianco
Ricorda le partite nei cortili, «quando costruivamo le reti con le sporte per le cipolle recuperate al supermercato», la scuola 6044 di Reconquista, dove oggi c’è una biblioteca sportiva che porta il suo nome, i match con il Club Platense Porvenia e la selezione del paese insieme all’amico Diego, che oggi fa il parrucchiere. «Un giorno, al Torneo Carvarella, Diego mi passa la palla e io, pum, quasi sfondo la rete. Lui s’avvicina e mi dice: amico, tu sei speciale». Rivive il trasferimento, non facile, a Rosario per i Newell’s Old Boys e i bravi maestri di allora: il direttore tecnico Jorge Griffa e l’allenatore Marcelo Bielsa, «che poi ho ritrovato in Nazionale».
Ricorda l’amicizia con Stefano Fiorini, lo storico preparatore che ancora oggi lo segue, l’amore per Irina Fernández, «così elegante e delicata», e le nozze nella cappella di San Roque, un 28 dicembre di quasi trent’anni fa. Rammenta i campionati disputati con il River Plate e il Boca Juniors, strappando la stima di due tifoserie che vanno d’accordo come il diavolo e l’acqua santa. «Un vero miracolo realizzato grazie a un precetto che mi sono sempre dato: rispettare i tifosi e i compagni, dare l’anima per la maglia».
«L’attaccante di razza deve seguire l’istinto»
Sorride: «Nella mia carriera ho dato poco retta agli allenatori. L’attaccante di razza deve seguire l’istinto. Capire, quando è sotto porta, qual è la soluzione migliore. Sapevo fare gol in molti modi, anche se l’etichetta del centravanti tutta forza me la sono trascinata dietro per sempre». Poi il trasferimento a Firenze. «Era la mia occasione, lo sentivo. Ma mi trovai a disagio. La città mi sembrava piccola e tutto era antico. Solo più tardi mi resi conto della meraviglia che avevo intorno. Solo più tardi compresi che i fiorentini, così ironici, esigenti e un po’ incazzati, mi somigliano.
Sbagliai le prime partite e dissero che ero un bidone. Feci 13 gol, ma non tirava aria buona. L’anno dopo retrocedemmo. Accettai di restare. Risalimmo e, finalmente, scattò l’amore. Cecchi Gori era il presidente. Mi facevo pagare bene, in cambio garantivo 30 gol a stagione, quando le difese erano più chiuse e le marcature asfissianti. Rifiutai offerte straordinarie, Real compreso. Ma a me non piaceva vincere facile. Ribaltare il tavolo e battere i favoriti, quella sì era vita. Trapattoni ci diede una mano convincendo il presidente al salto di qualità. Ma non bastò.
Quel gol a Wembley nel 1999
Racconta il suo gol più famoso: Wembley, 27 ottobre 1999, Arsenal-Fiorentina, sedicesimi di Champions League. In campo per i londinesi Bergkamp, Ljungberg, Overmars, Vieira. «Percussione di Heinrich, che non sa a chi passare. Il difensore Winterburn che mi marcava era distratto. Mi spostai, tirai e tutto in un attimo era già finito. Quel gol nella mia testa l’avevo già segnato prima ancora di colpire la palla. Firenze per una notte fu la capitale d’Europa». Difficile pensare che un amore così grande potesse finire.
La prima crepa risale a un FiorentinaMilan di fine anni Novanta. Calcio d’angolo, Bati scende a difendere. Salta di testa con Bierhoff che gli tocca il ginocchio in volo. Cade, si rialza, torna a giocare. Pochi minuti dopo, mentre punta la porta, la gamba cede definitivamente. Due mesi fuori. Intanto i dirigenti viola, come rivela il film di Benedetti, danno il via libera a Edmundo, detto o’ animale, per andare al Carnevale di Rio. Bati la prende male: si sente tradito e poco dopo chiede di essere ceduto.
Lo scudetto con la Roma: 20 gol in 26 partite
Va a Roma e, accanto a Totti, vince lo scudetto 2000-2001: «Me lo meritavo. Feci 20 gol in 26 partite. A Roma sarei rimasto a lungo, ma accettai la proposta dell’Inter. Fu Massimo Moratti in persona a convincermi: tra di noi c’era molta stima. Mi dispiace di non avergli dato di più». Vennero due anni in Qatar con Guardiola, Hierro, i fratelli De Boer, Caniggia, Effenberg: «Un’esperienza positiva, disintossicante».
Poi la parentesi australiana. «Volevo andare lontano. Cercavo una vita nuova con la mia famiglia». Irina nel film dice: «Ho sempre saputo che sarebbe stato difficile. Ora so che è stato anche meraviglioso». Infine il ritorno nella bella casa di Reconquista. Cercando un sollievo per le caviglie matte. Assecondando il desiderio di «tornare ad essere una persona comune». Facendo picnic sulle spiagge del rio Paranà, il luogo della riflessione, una passeggiata nel verde con Irina o un giro in barca sul lago. Rendendosi conto che l’emozione più forte non è legata a una vittoria ma «è vedere felice mia madre». Tornando senza farsi notare sui campetti dove tutto iniziò: «Mi auguro che almeno uno di quei ragazzi possa ripercorrere il mio cammino. Ma per farcela, bisogna crederci: è questo il messaggio del film».
«Tornare? Mi piace essere corteggiato»
Sorride: «Mi fanno tenerezza i giovani che con tutte le loro forze inseguono un sogno o i vecchi che stentano a campare dopo una vita di lavoro e fanno la fila per una visita in ospedale». Il calcio, una volta sistemate le caviglie, potrebbe dargli ancora molto. «Ma per lasciare l’Argentina dopo 15 anni dovrebbe valerne davvero la pena. Firenze è la mia città, sicuro. Ma io sono come una bella donna, mi piace essere corteggiato. Per farmi compiere un passo così importante ho bisogno di motivazioni forti. E non parlo solo di soldi. Cerco rapporti sinceri, autentici. O principe o signor nessuno: le verità a volte sono fragili. Il calcio è un mondo meraviglioso, ma non tutto è come sembra. E le delusioni, caviglie a parte, sono sempre possibili».
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