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LA BIENNALE AI TEMPI DEL COVID – INAUGURATA L’UNICA MOSTRA DELLA BIENNALE DI VENEZIA IN OCCASIONE DEI 125 ANNI DALLA FONDAZIONE: SI INTITOLA “LE MUSE INQUIETE”, PER LA PRIMA VOLTA È CURATA DA TUTTI I DIRETTORI DEI SEI SETTORI ARTISTICI INSIEME E RIPERCORRE I MOMENTI IN CUI SI È INTRECCIATA CON LA STORIA DEL NOVECENTO. MANCA PERÒ IL VENTENNIO 2000-2020 – PANZA: “NON LO SI STORICIZZA PERCHÉ NE SIAMO ANCORA DENTRO OPPURE IL COVID HA MESSO FINE A QUEST' ESPERIENZA E IL SISMOGRAFO BIENNALE, INDIRETTAMENTE, LO DICE PROPRIO CON QUESTA MOSTRA SULLE SUE RADICI?
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Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera”
Nella ricorrenza dei 125 anni dalla sua fondazione, caduta nell' anno del Covid che l' ha costretta a spostare le tradizionali rassegne, la Biennale di Venezia ha inaugurato ieri al Padiglione Centrale dei Giardini la sua unica mostra di quest' anno.
S' intitola Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia , è curata, per la prima volta da tutti i direttori dei sei settori artistici insieme (coordinati da quello dell' Arte, Cecilia Alemani) e ripercorre sino a martedì 8 dicembre - attraverso le fonti del suo archivio e di altri - quei momenti in cui la Biennale e la storia del Novecento si sono intrecciate.
La tesi dell' esposizione (la prima firmata dal nuovo presidente, Roberto Cicutto) è chiarissima: la Biennale è stato un sismografo di quanto accadeva nel Paese e nel mondo e ciò viene raccontato, in un percorso di austere vetrine, attraverso più di mille lettere, fotografie, filmati (molti dall' Istituto Luce), documenti, immagini che vanno osservati brossura alla mano oppure scaricando il qr code o servendosi delle guide presenti in sala.
Non si parte dalla fondazione, datata 1895 (anno in cui i Lumière mandarono la prima troupe sul Canal Grande) ma dagli Anni del Fascismo 1928-1945 per esplicitare, appunto, la fascistizzazione della Biennale attraverso le visite dei gerarchi e di Hitler nel 1934 (che rifiuta un quadro di Fioravante Seibezzi per una marina di Memo Vagaggini), con il Padiglione tedesco che abbandona la linea tracciata da Otto Dix, Paul Klee e Max Ernst, con la Mostra del cinema usata per propaganda, con premio a Olympia di Leni Riefenstahl, nonché con l' allontanamento dei musicisti «degenerati» (Ernst Krenek, Paul Hindemith,Igor Stravinskij, Bela Bartók), che si esibiscono, comunque, fino al 1938.
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Segue la sala dedicata alla Guerra fredda. I nuovi ordini mondiali 1948-1964 , ovvero la Biennale della ricostruzione, con l' arrivo in Laguna del sessantasettenne Picasso e Peggy Guggenheim che espone per la prima volta la sua collezione nel Padiglione greco sotto gli occhi di Luigi Einaudi. È in nuce qui la frattura una tradizione europea dell' arte come disvelamento e radicamento simbolico e il «nuovo»: l' idea di arte come «impegno» e di arte fortemente condizionata dalla società americana.
Tuttavia, la Mostra del Cinema «non premia» Luchino Visconti, l' arrivo di Bertolt Brecht con Madre coraggio viene annullato due volte (nel 1951 e nel 1961) e solo nel 1964 Robert Rauschenberg vince il Leone grazie a un rocambolesco trasporto notturno in gondola di una sua tela che non riesce a entrare dalla porta del Padiglione Usa.
Poi Il 68. La contestazione fa pendere la bilancia dell' arte come azione di critica sociale. La Biennale viene contestata, militarizzata, finché il nuovo presidente, Carlo Ripa di Meana (1974-78) cambia lo statuto, avvia un programma interdisciplinare diffuso in città e chiama Vittorio Gregotti, Luca Ronconi, Germano Celant e lo svizzero Harald Szeemann. La Biennale diventa azione politica nel '74 con Libertad para Chile , nel 1975 con il Living Theater e Jerzy Grotowski e nel '77 quando Ripa di Meana vara la Biennale sul Dissenso culturale in Unione Sovietica : Gregotti e Ronconi si dimettono, il Pci insorge e abbiamo la prima foto di Bettino Craxi in Laguna.
Il Postmoderno sdogana le Corderie dell' Arsenale come spazio espositivo dove irrompe l' Architettura con la Strada Novissima di Paolo Portoghesi e, sull' acqua, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Quel genio di Carmelo Bene si fa nominare direttore ma non fa mai la mostra. Gli anni 90 sono un focus sui Padiglioni nazionali che resistono nella stagione che avvia l' idea di superamento dello Stato-Nazione e sulla Biennale del 1997 di Germano Celant, con Leone a Marina Abramovic per Balkan Baroque .
Qui la mostra si conclude ma il significato più profondo è in quello che cessa di raccontare, il ventennio 2000-2020, quello della globalizzazione e finanziarizzazione dell' arte, quello degli artisti brand, dei curatori impegnati più a prendere aerei che a studiare.
Non lo si storicizza perché ne siamo ancora dentro oppure il Covid ha messo fine a quest' esperienza e il sismografo Biennale, indirettamente, lo dice proprio con questa mostra sulle sue radici?
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La curatrice Alemani stessa, esperta di contemporaneo global, incomincia a nutrire dei dubbi sul futuro del globalismo nell' arte: «Potrebbe esserci un ritorno all' Iperlocal, si viaggerà di meno e si potranno approfondire le radici evitando Biennali uguali in tutto il mondo. Si potrà cercare qualcosa che rende unici, ci sarà più specializzazione». Toccherà a lei a curare la prossima Biennale d' arte: sarà l' ultima della stagione global o la prima di una età post Covid ancora da decifrare?
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L' altro interrogativo che pone questa mostra sta nel back-office . Stiamo digitalizzando tutti gli archivi storici e la contemporaneità digitalizza di sé stessa una massa talmente enorme di materiale da soffocare le future generazioni.
Ciò avviene, come ha spiegato Henri-Pierre Jeudy ( Fare memoria , Giunti, 2011), a causa della cattiva coscienza degli individui contemporanei che non vogliono farsi carico personalmente del peso del passato, delegandolo ad anonimi data-base. Ma digitalizzare tutto senza gerarchia non salverà, nel futuro, il nostro presente.
Bisogna scegliere che cosa conservare e mantenerlo vivo nello spazio sociale. I documenti esposti alla Biennale ci raccontano le passioni che furono perché non sono un dato digitalizzato ma un bene materiale sopravvissuto a molte mani e molte vite.
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gioni cecilia alemani
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CECILIA ALEMANI
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