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T’AMO PIO BOWIE - OGGI E DOMANI “DAVID BOWIE IS” SBARCA AL CINEMA - LA MOSTRA RECORD DEL DUCA BIANCO E’ UNA MONTAGNA RUSSA DI TROVATE GENIALI CHE SUPERANO LE BARRIERE DELLA MUSICA PER FARSI ARTE CONTEMPORANEA

Simona Orlando per Dagospia

 

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Una mostra ma al cinema e di un artista vivo e produttivo. Suona contorto. Non se parliamo di David Bowie, il più eclettico, magnetico, fotogenico, trasformista della storia del rock, che nel 2013 prestò l’archivio al “Victoria and Albert Museum” di Londra per tracciare i suoi 50 anni di carriera, registrando record di pubblico. La mostra è in tour mondiale (torna in Europa il 15 marzo, a Parigi) ed è immortalata in David Bowie Is, nelle multisale UCI Cinemas oggi e domani.

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Un incredibile viaggio attraverso le metamorfosi e le visioni, spesso previsioni, dell’uomo che è stato tanti uomini: il David Robert Jones nato a Brixton, famiglia ordinaria e carattere straordinario, che già da adolescente si immaginava istigatore di nuove idee, si vedeva star. E star appariva, prima ancora di concludere qualcosa, quando era solo un giovane dall’aspetto dandy orgoglioso proprietario di una sax bianco di plastica. Nel 1965 David rinasce Bowie, due anni dopo debutta col disco, tempismo imperfetto, in concomitanza con St Pepper dei Beatles.

 

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Ma lui è in continuo movimento, diventa la maschera, il mimo, impara da Lindsay Kemp il linguaggio del corpo, il controllo dei gesti, l’ intensità drammatica. Nel 1969 regala la stratosferica Space Oddity, il pianeta blu visto per la prima volta dalla luna, atmosfere mai sentite prima. Dalla scienza alla fantascienza con Starman, Life on Mars, rimescolando le odissee futuriste di Kubrick. Bowie non guarda più agli extraterrestri, è lui l’alieno. Non fai in tempo a chiederti chi è, che è già diventato qualcun altro.

 

Ed ecco Ziggy Stardust, la rockstar caduta su un mondo al collasso, capelli rossi, trucco pesante, così eccessiva e vorace da mangiarsi pezzi interi del David che la contiene, così amata da diventare mania e venire consumata da fan e cloni, finché, per liberarsene, quell’invenzione va uccisa nell’ultimo atto di Rock ‘n’ roll suicide. Nella mostra Ziggy è conservato in un sarcofago, in attesa di risorgere.

 

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Intanto Bowie resuscita in altra forma, abita nella distopica e orwelliana “Hunger City", in copertina di Diamond Dogs è una specie di arpia, un mutante, mezzo uomo mezzo cane. In Station to Station diventa l’algido Duca Bianco, androgino, completi eleganti, niente più lustrini e paillettes. Si passa da fuori a dentro. I colori si spengono, regna il bianco e nero dell’espressionismo tedesco nella cupa trilogia berlinese, all’ombra del muro con Iggy Pop e Brian Eno.

 

Gli anni Ottanta lo vedono rinascere dalle ceneri di Ashes to Ashes, dove si fa pierrot, arrivano i successi più commerciali, avanti, fino all’ultimo disco The Next Day, dove è un signore con il cardigan rassicurante solo finché non cambierà pelle, e alla raccolta Nothing has changed, con l’inedito Sue, digressione jazz con una big band alle spalle, atonale, incedere drum’n’bass.

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I sessanta abiti in esposizione raccontano ognuna delle trasmigrazioni di Bowie. Si parte da quello di Starman del ’72, la tuta di Freddie Burretti ispirata ad Arancia meccanica, indossata in quell’esibizione tv che segnò una generazione. Chi diavolo era quel tipo dai capelli arancioni che puntava il dito alla telecamera? Un uomo, una donna? Quell’immagine cambiò la vita a molti. Tanto spiazzava quanto rassicurava, diceva che andava bene essere diversi, creava uno spazio protettivo per chi voleva esprimersi, legittimava l’individualismo dei teenager. “Tu non sei solo” cantava Ziggy. Outsiders e incompresi si sentirono eletti a unici.

 

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C’è poi l’iconica tuta in vinile di Kansai Yamamoto, stilista che nel film racconta il suo surreale incontro con Bowie: aveva disegnato il vestito per una donna, e se lo ritrovava portato da uomo. C’è il soprabito Union Jack bruciato, creato da Alexander McQueen per la cover di Earthling, le mise più azzardate, da drag queen, freak, clown, vampiro, i completi sobri che accompagnava con scarpe a stiletto. E’ una montagna russa di trovate geniali, che infrangono lo status quo e anticipano le tendenze. Un piacere per gli occhi come per l’orecchio, perché nel suo caso la musica è per come appare.

 

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La mostra porta dritto nella testa di Bowie. I trecento oggetti esposti includono filmati, fotografie, testi scritti a mano, con errori e cancellature e una calligrafia femminile. Ci sono i suoi libri preferiti, gli storyboard per i video, bozzetti dettagliati di costumi e scenografie, dipinti. Si seguono le fasi del suo processo creativo, anche del periodo in cui per comporre usava la tecnica del cut-up, le carte, il verbasizer, un generatore di parole random a cui poi lui aggiungeva qualità emotiva, “come un sogno tecnologico senza la noia di dover dormire tutta la notte”.

 

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Una sezione è dedicata ai suoi film L’uomo che cadde sulla terra, Labyrinth, Miriam si sveglia a mezzanotte. In un’ala è stata creata la tavola periodica di Bowie, da chi è stato influenzato (Elvis, Little Richard, Kubrick, Kurt Weill, da Brecht a Orwell, dal teatro kabuki a Warhol, da William Blake a Philip Glass, la lista è lunga) e chi ha influenzato (e qui la lista è ancora più lunga). E’ l’artista più citato dai creativi contemporanei, punto di riferimento per musicisti, registi, stilisti, art director, pubblicitari. Per i fotografi è il soggetto perfetto, fa sempre qualcosa che rende unica l’immagine. Ciò che vediamo è ciò che lui vuole farci vedere.

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Salta da universo a universo, controllando ogni aspetto visivo di ciò che produce. E’ sempre un passo avanti, tanto che non sembra una retrospettiva, piuttosto una fiera d’arte contemporanea. E’ strabiliante la quantità di cose che ha fatto, di personalità che preso, di generi musicali che ha attraversato. Eppure, alla fine, nonostante queste altezze e profondità, resta un repertorio di canzoni pop, e questa è la sua vera grandezza. David Bowie is è un titolo incompleto. Ognuno, uscito dal cinema o dalla mostra, saprà cosa aggiungere.