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Giancarlo Dotto per Dagospia
Non c’è riuscito. Spalletti, intendo. Il suo piano era molto ambizioso: infilarsi nelle fauci del Drago, farlo sfogare per la prima mezz’ora e poi fargli scoppiare una granata in pieno petto, nel cuore cannibale della sua tana. Tornare a Roma con la testa del nemico come trofeo. Le cose non sono andate per il verso giusto e la mala tentazione, ora, è di credere nel destino. Rassegnarsi.
Considerare ineluttabile la sconfitta contro un avversario percepito come una bestia mitologica (quel “sono animali” di Spalletti), al netto dell’ovvio bla bla sul suo potere economico, la sua storia e la sua bulimia polifemica.
De Rossi e compagni devono ripartire da una realtà, sottovalutata nel post partita dallo stesso allenatore sotto l’effetto di una non misurabile frustrazione: nessuna squadra negli ultimi cinque anni ha messo all’angolo quelli della Juve come ha fatto la Roma per almeno mezz’ora, con tutti gli errori e i limiti del caso.
Se sono uomini, come tutto lascia credere, e non bambocci, da qui devono ripartire per scalare l’Everest dei meno sette. Dagli errori e dai limiti, per migliorarli. Primo errore strutturale. Un organico con il fiato corto. Polpacci, inguini e polmoni di troppi giocatori sono usurati per mancanza di ricambi. Strootman e Nainggo fino in fondo allo stremo e pure malconci. Quando esce De Rossi, Spalletti si volta non trova nessuno in panchina. E’ costretto a inventarsi una soluzione in cui non crede. Dentro El Shaarawy.
Secondo errore contingente. Gerson immaginato come sentinella di Alex Sandro. L’eccesso di pensiero di una testa molto intelligente, che tende a fidarsi molto di sé al punto da scegliere l’azzardo. Il senso comune, nel leggere Gerson in formazione, ha protestato e sillabato l’ovvietà: troppo “tenero” e troppo ancora straniero il ragazzo per gettarlo in una sfida così torrida e in una parte mai interpretata prima (in Brasile ha giocato spesso, sull’out sinistro, sempre puntando la porta avversaria, non dandogli le tremule spalle come a Torino). I fatti hanno dato ragione al senso comune e non al “colpo di genio”. Brutta storia, quando la banalità si dimostra il ragionamento forte. E’ il lato insostenibile della vita.
Spalletti non si assolva, ma non se ne faccia un dramma. Continui a fidarsi della sua testa. Resta la traccia guida di un’impresa possibile anche se impossibile, cui mancano troppe cose, a cominciare dalla latitanza sempre più imbarazzante di Pallotta.
Terzo errore contingente. Immaginare che il calcio sia una scienza esatta. Lasciamo questa cialtroneria ai pomposi babbei, un esercito, del senno di poi. Quelli che ti sanno sempre scodellare certezze granitiche solo a sipario chiuso e giochi fatti. In pochi secondi si accumulano quattro circostanze irripetibili. E’ il gol di Higuain. E’ il calcio. Esaltante e odiosa giostra del caso. De Rossi a terra non interviene, perché appena incomprensibilmente ammonito da Orsato.
Prima Fazio e poi Manolas, due difensori super, sbagliano postura dell’intervento, uno rinunciando, l’altro scivolando. Quarta irripetibilità: Higuain, in piena frenesia e illuminazione cinetica trova il capolavoro, baciato dalla sorte e su cui c’è anche il veniale errore di posizione/percezione dell’ottimo Scezny, così come si pronuncia.
Quarto errore, ma questo non è un errore. Immaginare che Dzeko sia Higuain. Un caso divino anche quando pingue, capace d’illuminarsi dal nulla nella grazia di una trovata che decide una partita. Dzeko non è un bidone e nemmeno un fuoriclasse. E’ un ottimo giocatore fuori dall’area e buono dentro, ma solo nella situazione ideale di spazio e partnership. Il Salah di turno che scava lo spazio e destabilizza la linea di difesa. Senza questo, Dzeko è una sagoma troppo decifrabile. Facile prendergli le misure. Buttare al centro decine di palloni, spesso sbagliati, non aveva senso. Non c’era destinatario.
Quinto errore (strutturale). La Roma giocherà quasi alla pari la sua sfida solo quando avrà uno stadio amico che gli respira addosso. Certe suggestioni mistiche e superomistiche ti crescono solo quando hai sulla pelle, il fiato di tanto gente. Facile, in quel caso, sentirsi samurai votati all’impresa. La Roma può e deve farlo, in assenza. I veri samurai sono questi. Non hanno mondi amici alle spalle.
Detto e stradetto tutto, se Manolas avesse centrato a poco dalla fine la comoda deviazione a un metro dalla porta vuota, staremmo qui tutti a celebrare la Roma. A volte, per andare avanti, serve comportarsi come se il dado fosse caduto sulla parte giusta. Il senno che vale è sempre quello di prima.
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