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DAGOREPORT – SE C’È UNO SPIATO, C’È ANCHE UNO SPIONE: IL GOVERNO MELONI SMENTISCE DI AVER MESSO…
Emanuela Audisio per La Repubblica
Non ci si dimentica di se stessi, di quello che si è stati. I campioni sono così, si stremano, a forza di inseguire se stessi. à lo specchio che li frega e li sublima. Lì ti vedi sempre grande e immenso, pure se in pista perdi giri. Ma quando ti risoffia il vento in faccia, lo riconosci, sai acchiapparlo, ne conosci il gusto e sai come domarlo.
à l'orgoglio dei numeri primi. Valentino Rossi vince il Gp d'Olanda, settima prova del motomondiale. A 34 anni lo davano per finito, un patetico fantasma su due ruote, uno zombie lento e impacciato che insisteva per fare il bambino. Ormai non lo chiamavano più Dottore, ma Infermiere. Era sceso di rango e di classifica. Da tre anni prendeva batoste. Zero successi in mille giorni.
Ora la sua vittoria numero 106: inseguimento, scatto, giri dolci e felici. Non si riapre una carriera, ma almeno si dimostra che non puzza di naftalina. Un campione sente e riconosce i brividi, il sapore dell'adrenalina che nella tempesta ti porta al sorpasso. Sta male invece nella bonaccia, quando il vento langue, il timone scivola, la terra si allontana e la linea d'ombra si allunga.
Non vincere diventa un'abitudine desueta, t'impegni come prima, ma sei affannato, nulla funziona più, cadi, precipiti, e sul traguardo ti precedono tutti, pure i dubbi. Per chi sta in cima, risalire i gradini è dura. L'immagine di quello che eri non ti lascia mai, è un aglio che lavora di notte, che riaffiora in bocca, un po' ti rimotiva, ma ti dissesta anche. Te ne freghi dei dubbi degli altri e i tuoi li sequestri. Un campione insabbia e incassa, ma se trova un varco si ricorda subito come si fa e ci s'infila veloce.
Andre Agassi, tennista straordinario nel bene e nel male, vent'anni di carriera, più di mille match dall'86 al 2006, ascese, cadute e rinascite, infortuni al polso, all'anca, schiena a pezzi, morale a terra dopo che la moglie, l'attrice Brooke Shields, divorziò con la frase: «Tu non ti sei evoluto», è stato capace di tornare in cima a 30 anni, il numero uno più vecchio del ranking mondiale. Non solo: risalire dalla posizione 141 dopo che sei stato il re del tennis, significa affaticarsi nella corrente molto più dei salmoni.
Perché come dice lui: « Quando sei in alto per la prima volta non sai quello che ti aspetta, ma quando ci risali non sei più così convinto della tua infallibilità e sai che i passi falsi sono frequenti. E allora non si tratta di vincere, di classifica, di tornare in cima, ma di essere ogni giorno un po' migliore, di fare un gradino alla volta. Rinasci così, costruendoti pezzo per pezzo il tuo futuro».
Per Muhammad Ali tornare re del ring è stata una questione di fede. L'uomo che mise paura all'America, il soldato che nel '67 rifiutò di andare ad uccidere i vietcong, il campione che a 25 anni pagò la sua coerenza con cinque milioni di dollari di multa, cinque anni di carcere e il furto del titolo mondiale, rimise le mani sulla corona dei massimi nel '74 contro Foreman nello Zaire. Non c'è mai stato modo di ammaccargli la fiducia, potevi bastonarlo, fiaccarlo nella carne, lui si metteva a ridere e chiedeva: «Diavolo, non ce la fai a picchiare più forte?».
E nel '78 a 36 anni si riprese il mondiale da Leon Spinks, un gigante sdentato che metteva paura. Crederci all'infinito bisogna. Non combattere la disperazione, ma farsela amica. Perché lo sport si nutre di Dorian Gray. Carl Lewis, 35 anni, ai Giochi di Atlanta non era più una folata di vento, ma una tromba d'aria lenta e impasticciata.
Al terzo salto nel lungo arrivò a 8,50, niente per lui, ma misura dove non lasciava l'impronta da quattro anni. Vinse con la sua gara olimpica più brutta e più misera. Ma si fermò a riempire una busta e si portò via un po' di quella sabbia dolorosa e stanca. Se torni a guardare tutti dall'alto, è perché hai finalmente capito che significa stare in basso. E ti sei detto no.
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