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ECCE LOMU! - ''UN CARRARMATO CHE VIAGGIAVA ALLA VELOCITA’ DI UNA FERRARI'', IL GIGANTE DEGLI ALL BLACKS PORTO’ IL RUGBY NEL FUTURO: “CHISSÀ COSA AVREI COMBINATO, SE FOSSI STATO BENE” - L’EX AZZURRO VACCARI: “UN OMONE CHE CORREVA DA GAZZELLA” - VIDEO

1. VIDEO - IL TRIBUTO A LOMU

2. VIDEO - LE GRANDI AZIONI DI LOMU

 

3. DA MANDELA ALLA MALATTIA ADDIO AL GIGANTE LOMU CHE PORTÒ IL RUGBY NEL FUTURO

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Massimo CalandrI per “la Repubblica”

 

«Dicono sia già in Paradiso, è arrivato di corsa. Perché nessuno può fermarlo». Delle migliaia di messaggi di cordoglio, questo racconta meglio di tutti Jonah Lomu, il gigante dallo sguardo triste che solo la malattia ha potuto placcare. La leggenda neozelandese del rugby, l’uomo che ha ribaltato le leggi fisiche dello sport, che ne ha riscritto logica e dinamica, il Tyson e il Maradona ovali, aveva 40 anni e un’ultima meta da segnare: «Vorrei vedere i miei bambini diventare maggiorenni».

 

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Invece se n’è andato l’altra notte nella sua casa di Auckland, la moglie Nadene gli stringeva la mano, i piccoli Brayley (6) e Dhyreille (5) dormivano innocenti. Il cuore, la cosa più grande in quell’omone di quasi due metri e 118 chili di muscoli, non ha retto. Soffriva da sempre di una rara forma di sindrome nefrosica, gli avevano trapiantato un rene ma lo aveva rigettato. Era un calvario di dialisi e ricoveri, però uno così pensi non si arrenda mai.

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Stava male già da ragazzo, eppure sparpagliava avversari sul prato che neanche Bud Spencer, e allora? Allora è successo che all’improvviso le proteine sono scese di 25 volte il normale, la luce si è spenta. Ora Jonah è tornato a correre. Nel suo Paradiso ovale, implacabile e implaccabile.

 

«Chissà cosa avrei potuto combinare nella vita, se fossi stato bene». Nessuno mai, come lui. Il più giovane a esordire con la maglia numero 11 dei mitici All Blacks, a 19 anni. Un’ala anomala per dimensioni e velocità, si metteva l’ovale sotto l’ascella e chi lo teneva più? Nei mondiali sudafricani del 1995 avevano persino messo una taglia: 5.000 dollari a chi fosse riuscito a bloccarlo. In qualsiasi modo, almeno per una volta. Lo fece Joost Van der Westhuizen nella storica finale vinta dagli Springboks ai supplementari davanti a Nelson Mandela, quella celebrata in Invictus.

 

Joost oggi è su di una sedia a rotelle, vittima della Sla, e uno degli ultimi amici che gli è andato a fare visita in estate è stato proprio il gigante gentile. Il ragazzino che in quella World Cup aveva sbalordito con 4 mete segnate in semifinale all’Inghilterra.

 

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La prima rimane la copertina di questo sport, un filmato cliccato milioni di volte: Lomu supera Underwood, Carling (che poi ebbe una storia con Lady Diana) e travolge – calpestandolo letteralmente – il povero Catt. Un mostro di velocità e forza fisica, un fenomeno della natura, uno che avrebbe dominato in qualsiasi disciplina: la Nfl offrì un tesoro per convincerlo a passare al football, niente da fare.

 

«Ricordatevi che il rugby è uno sport di squadra: tutti i 14 uomini devono passare la palla a Jonah», era scritto in un profetico fax ricevuto dalla federazione neozelandese prima di quell’incontro. La sera del match non partecipò al terzo tempo: si sentiva stanco, spossato. Andò a letto presto, nemmeno gli riuscì di mangiare il sandwich che gli avevano preparato.

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La prima diagnosi della malattia non fu così allarmante. Il ragazzo dallo sguardo triste e il fisico prodigioso partecipò alla sua seconda World Cup, 4 anni dopo. Un’altra pioggia di marcature spettacolari, portandosi sulle spalle come bambini mezza squadra inglese e pure la Francia. Però mancò ancora il titolo, la fortuna non è mai stata dalla sua parte.

 

Tante battaglie in campo con diversi club kiwi -Manuaku, Auckland Blues, Chiefs e Hurricanes - poi quella in ospedale, perché ad un certo punto il corpo non reggeva più. Il trapianto di un rene, donatogli da un amico dj, nel 2004. Siona Tali ‘Jonah’ Lomu, figlio di un pastore metodista tongano, ricominciò dal Galles, una stagione ai Cardiff Blues. Ma non era più l’uragano di un tempo.

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Una parabola lenta, inesorabile, chiusa nel 2010 giocando a Marsiglia con una squadra di dilettanti. «Vorrei continuare, il rugby è tutta la mia vita. Ma non ce la faccio». L’anno dopo, il rigetto del rene e di nuovo l’incubo dei ricoveri. «Devi sempre cercare di restare positivo, anche se questa malattia ti distrugge un poco alla volta». Jonah non ha mai mollato. «L’alternativa è una sola: stare su col morale. E lottare, sempre. Voglio insegnare ai miei figli che non c’è niente di facile, in questa vita».

 

L’impegno con l’Unicef e altre charity, le strette di mano agli All Blacks - che a fine ottobre hanno vinto il loro terzo titolo - e a Julian Savea, che sostengono sia il suo erede ma è impossibile.

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Nei giorni scorsi era a Dubai con la famiglia, una breve vacanza. Su twitter ha postato un messaggio dopo l’attentato di Parigi («Siate forti, viva la Francia») e un’ultima foto, 3 giorni fa: il gioco d’acqua di una fontana. Ieri Richie McCaw, l’altra leggenda ovale neozelandese che ha appena alzato al cielo la World Cup e oggi avrebbe dovuto annunciare il ritiro, lo ha salutato: «Eri un incredibile rugbista e una straordinaria persona. Riposa in pace, amico».

 

 

 

4. VACCARI, L' AZZURRO CHE PROVÒ A PLACCARLO "UN OMONE CHE CORREVA DA GAZZELLA"

Da “la Stampa”

 

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L' architetto Paolo Vaccari, una delle ali più grandi nella storia del rugby, non solo azzurro (è stato chiamato a rappresentare l' Italia all' apertura degli ultimi Mondiali), Jonah Lomu lo conosceva bene. «Sul cellulare ho ancora il messaggio che gli ho mandato 11 giorni fa: "Come va?". "Molto bene amico mio".

 

Ci sentivamo spesso, l'avevo intravisto a Londra, sapevo che era sotto dialisi ma speravo di incontrarlo l' anno prossimo con gli All Blacks a Roma. La sua morte mi ha gelato. Un dolore grande».
 

Bologna 1995, Lomu parte dalla linea di meta neozelandese e si porta dietro tre azzurri. Uno era lei.
«A ripensarci mi girano ancora le scatole. L' avevo preso: uno normale o si butta a terra o passa la palla. Lui ha continuato a spingere sulle gambe».
 

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Implaccabile?

 «Un superuomo. Di avversari forti ne ho incontrati tanti, ma nessuno come lui. Ancora oggi non ha paragoni. Le tre volte che ci ho giocato contro sono state le peggiori giornate della mia vita.

 

Jonah metteva paura, non sapevi come affrontarlo. Era un omone ma correva sfiorando l' erba come una gazzella. Un cambio di passo di due metri e ti scartava. Che fai a uno così?».

Il migliore di sempre?
«È stato il primo fenomeno del rugby. Ha cambiato il nostro sport anche a livello mediatico, molte aziende lo avevano capito e la sua popolarità ha fatto bene a tutti».

Fuori dal campo come era?
«Una persona fantastica, genuina, l' amico che trovi in oratorio. E con la malattia era diventato ancora più sensibile».

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5. LA LEGGENDA DI JONAH LOMU

Giovanni Battistuzzi per “il Foglio”

 

“E’ come un carrarmato che viaggia alla velocità di una Ferrari. Pazzesco”. Fu questo il commento del giornalista che raccontava la prima partita del Campionato del Mondo di rugby del 1995 per la Bbc.

 

Jonah Lomu era essenzialmente questo, una forza incontenibile, uno tra i rugbisti più forti della storia, sicuramente quello che ha reso questo sport attraente per televisioni e stampa mainstream di tutto il mondo. Era nato a Aukland, Nuova Zelanda, quarant’anni fa; è morto ieri, sempre nella capitale neozelandese.

 

“Non sono mai stato facile da placcare, ma questa volta mi ha placcato la salute”, disse nel 2003 al New Zealand Herald prima di ritirarsi. Problemi ai reni. Dialisi tre volte a settimana e una dieta particolare.

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Sembrava potesse ritornare subito, inizò la preparazione ma a poche settimane dall’inizio del campionato si ritrovò di nuovo su un letto d’ospedale. Subì un trapianto. Ritornò in campo tra una pausa e l’altra della malattia. Lo lasciò definitivamente nel 2010.

 

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Lomu è stata “una parentesi rugbistica velocissima ma indimenticabile”, ha detto Brian Lochore, il primo coach che portò gli All Blacks alla vittoria della Coppa del Mondo. Otto anni in maglia nera, un Mondiale, un secondo posto, recordman di mete in entrambe le edizioni – ben quindici: un bottino ancora insuperato. Quando partiva era inafferrabile, un bulldozer di 119 chili per 192 centimentri di altezza che correva i cento metri in poco meno di 11 secondi.

 

Prendeva l’ovale e non lo perdeva, si beveva gli avversari con una finta di corpo e quando erano troppi per dribblarli li saltava, li scaraventava a terra o se li trascinava dietro avvinghiati a busto e caviglie. E’ stato il migliore. Ieri è diventato una leggenda

 

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