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Teresa Bertuzzi per Dago-art
Meno di una settimana alla chiusura di “Burning Down The House”, decima Biennale di Gwangju che, sotto la guida della neoeletta curatrice Jessica Morgan (Tate Modern), ha ricevuto critiche positive e si è dimostrata sferzante, incisiva e politicamente impegnata.
È già qualche anno che la Corea del Sud si sta facendo largo nel mondo dell’arte contemporanea, ottenendo molti riconoscimenti internazionali, anche se è ancora l’onnipresente, e spesso sopravvalutato, vicino cinese a dominare il mercato in Estremo Oriente.
L’Art Radar Journal propone sei giovani artisti emergenti (tre uomini e tre donne) pieni di coraggio e talento, che si stanno facendo notare in patria e all’estero grazie alle loro sperimentazioni.
Jin Joo Chae (1981, Seul) è conosciuta per i suoi celebrati “Choco Pie works”: pezzi unici e concettuali che Chae realizza utilizzando il cioccolato come inchiostro. Disegnando parole e immagini sulle pagine di quotidiani stampati in Corea del Nord, l’artista tenta di stimolare una riflessione su questioni politiche e in particolare sulle violazioni dei diritti civili nel paese.
La seducente assurdità del mezzo si scontra con la realtà politica: la Choco Pie, un dolce popolare nella Corea del Sud, viene importata illegalmente e venduta al mercato nero nel Nord, dove è ormai divenuta vera e propria valuta.
Nelle opere più recenti di Chae, il design delle parole “Choco Pie” imita il logo della Coca-cola, segnando una connessione tra i due beni di consumo come simboli del capitalismo. L’artista ha spigato che il suo lavoro “riguarda il potere che ha la Choco Pie di cambiare una società e ciò che i nord coreani apprendono sul concetto di capitalismo”. Attraverso il proprio lavoro, la giovane tenta di rivelare la realtà complessa nascosta dietro la cultura dominante, ispirandosi alla politica, ai media e alle contraddizioni del proprio paese.
Nata e cresciuta a Seul, Jin Joo Chae ha conseguito un master alla Columbia University nel 2013. Le sue opere fanno parte della collezione permanente del Tokyo Metropolitan Art Museum e del Sakima Art Museum e la sua prima personale “The Choco Pie-ization of North Korea” si è tenuta a New York nel gennaio 2014.
Kwang Ho Shin (n. 1983) ha fatto un ingresso oscuro e spettacolare nel mondo dell’arte internazionale. I suoi potenti ritratti lasciano a bocca aperta. Sono al tempo stesso ipnotici, affascinanti e minacciosi, catturano le più intime emozioni dell’uomo con visioni impressionanti.
Nelle sue enormi tele è evidente l’influenza dell’espressionismo tedesco, con colori lussureggianti che immediatamente stregano lo sguardo del pubblico. Il comunicato stampa di “Face Me”, la personale dell’artista ora in mostra a Singapore, recita:
“Ignorando deliberatamente forme precise e colori armoniosi, Shin usa la distorsione e l’esagerazione per estendere la vita interiore dei suoi soggetti alla realtà esterna.” La complessità delle emozioni è come una traccia lasciata per un attimo sulla tela bianca, e ogni lavoro sembra derivare dalla lunga agonia interiore dell’artista.
Shin ha studiato presso la Keimung University e ora vive e lavora a Yeongdeok, nella Corea del Sud. È menzionato nella lista “One to Watch” della Saatchi Gallery e i suoi lavori sono stati esposti in Corea, Germania e Stati Uniti. “Face Me” (2104), ospitata dalla Yavuz Gallery, è la sua prima personale nel Sud Est Asiatico.
JeeYoung Lee (n. 1983) “ritrae l’invisibile”, dichiara il sito della OPIOM Gallery che rappresenta l’artista. Mentre la fotografia tradizionale cattura la realtà, Lee fotografa nuovi universi da lei creati. Ciò che offre è molto più che fotografia: Lee è una pittrice, una scultrice, una scenografa e una maga, che trasforma ricordi e sogni in finestre su mondi alternativi.
Queste immagini surreali e oniriche sembrano foto ritoccate al computer, ma non lo sono: evitando ogni sorta di manipolazione digitale, Lee passa settimane, a volte mesi, creando scenari altamente elaborati, definendo il concept, costruendo le scenografie e perfezionando l’illuminazione fino al più piccolo dettaglio.
Lee ha ricevuoto il Sovereign Asian Art Prize nel 2012 e la sua prima personale fuori dalla Corea si è tenuta in Francia nel 2014, dove ha ottenuto un grande successo di pubblico. La giovane artista trae ispirazione dalla propria vita e da fiabe tradizionali coreane e spesso appare è proprio lei il soggetto rappresentato nelle sue fotografie.
OPIUM spiega che i suoi autoritratti non sono mai frontali, dal momento che “non è il suo aspetto fisico ad essere mostrato, ma piuttosto la sua ricerca di identità, i suoi desideri e i suoi stati mentali. Le creazioni di Lee sono atti catartici che le permettono di accettare e superare frustrazioni e repressione sociale.”
Xooang Choi (n. 1975) è stato definito “l’oscuro maestro dell’immaginazione”. Le sue sculture in argilla polimerica dipinta, nate nei primi 2000 come miniature e cresciute man mano in scala dal 2007, sono costruzioni belle e delicate e allo stesso tempo angoscianti come incubi.
Superbamente modellate con una tecnica iperrealista, le sue figure umane hanno anche una componente surrealista: distorte ed esagerate, le strane creature si comportano come misteriose metafore, a simboleggiare le relazioni, le strutture sociali e la psiche umana. Choi sembra pensare che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nella società contemporanea e le sue spesso macabre sculture ritraggono vividamente lo stato patologico dei nostri tempi.
Choi ha studiato presso la National University di Seul. Ha esposto in personali e collettive in giro per il mondo e il suo recente lavoro “Work Noise” (2014) è stato appositamente commissionato per l’ultima biennale di Gwangju. L’Huffington Post scrive che “molte delle sue opere danno forma a problemi reali della Corea dei nostri giorni, inclusi abusi e violazioni dei diritti civili.” Ma Choi non è del tutto pessimista sul tema della condizione contemporanea: “Quando qualcosa sembra strano o sbagliato agli occhi di tutti, può essere corretto da uno sforzo collettivo. Una soluzione è possibile.”
Ham Jin (n. 1978) ha richiamato l’attenzione nel paese per le sue minuscole figurine comiche in argilla, quando ancora studiava alla Kyungwon University nel 1999. Della grandezza di un’unghia, queste brillanti e delicate sculture erano ossessive, personali repliche di oggetti ordinari e triviali.
Divertenti e pieni di fantasia, i lavori riportavano all’immaginario infantile; citato dalla triennale di Guangzhou, lui li interpretava come “spettacoli che sono parte della vita quotidiana ma invisibili agli occhi.” Da allora, l’artista ha portato avanti i temi della miniatura e dell’invisibilità, ma la sua arte si è spostata verso luoghi più oscuri. Limitando il materiale usato all’argilla polimerica nera, le sue recenti sculture e installazioni sono lievi, minimaliste e astratte – sinistramente eteree. Ma la tecnica superba è ancora visibile, forse più che mai: utilizzando una lente di ingrandimento, si potranno distinguere intricati visi umani o edifici di New York che emergono dalla materia nera. L’incredibile livello di dettagli richiama la presenza di verità nascoste nella società. L’artista invita il pubblico a osservare da vicino per registrare l’invisibile, il grottesco e le sofferenze non viste del mondo.
Jin espone in personali e collettive in tutto il mondo. Il suo statement per la Busan Biennale 2014 ne spiega il percorso artistico: “I miei lavori precedenti erano invisibili nello spazio in modo che ognuno potesse scoprirli, come fossero quadrifogli. Quelli più recenti sono visibili nello spazio, ma le loro implicazioni restano invisibili. Nulla è chiaro, come la polvere o la nebbia ma, ad uno sguardo ravvicinato, ci sono molte forme che si intersecano con pensieri differenti, come un semi-astrattismo.”
Jeongmoon Choi (1966) crea installazioni ipnotiche e mistiche, con fili di lana colorata e raggi ultravioletti. I campi di linee incrociate tridimensionalmente sono costruiti impeccabilmente e giocano con la prospettiva, la luce e l’illusione, per interagire dinamicamente con gli spettatori.
Come risultato, ogni stanza o ambiente viene trasformato in un intenso ambiente fantascientifico. I fili sono usati come materiale per disegnare: si può giustamente dire che l’artista “disegni” o “dipinga” nello spazio. Choi spiega ad Art Radar la sua filosofia: “con i fili traccio i contorni delle stanze o dei mobili, a volte in maniera decisa e geometrica, altre volte sotto forma di scrittura animata. Uso i raggi UV per dare luce alla mia visione.”ù
Laurent Müller, il gallerista che rappresenta l’artista a Parigi, parla del lavoro e delle riflessioni artistiche di Choi: “è importante considerare l’idea di ‘protezione’ – del nostro essere fragili creature opposte alle forze naturali come tempeste, inondazioni, catastrofi – Come specie, cerchiamo di controllare la natura, ma questa è solo un’illusione. L’illusione di un’architettura artificiale che ci protegga è alla base delle riflessioni dell’artista”.
Choi vive e lavora tra Berlino e Seul ed espone regolarmente in tutto il mondo, in particolare in Europa e in Corea del Sud. La sua ultima mostra “In.visible” è in corso al Forum Maximilian di Monaco fino a metà novembre 2014.
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