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«MI DISSE: CON MANCINI E SINISA SARÀ SCUDETTO»
Alberto Dalla Palma per “il Messaggero” - Estratti
Si era stancato di galleggiare e voleva vincere, così un giorno Cragnotti si mise in testa di portare Capello sulla panchina della Lazio.
(...) Capello era il desiderio del finanziere di Porta Metronia, che come al solito puntava in alto. «Ero a Milano, stavo trattando e per caso venne fuori il nome di Eriksson, così lo chiamai» ricorda Sergio Cragnotti, assai addolorato per la scomparsa del tecnico svedese che sulla panchina della Lazio ha vinto uno scudetto e sei trofei.
Il più importante tra questi?
«La Supercoppa Europea, in finale contro il Manchester United di Fergusson e di Stam. Fu il nostro sbarco in campo internazionale da vincenti, un successo di prestigio. E poi, ovviamente, lo scudetto, il secondo della storia».
Eriksson, per la verità, aveva già un accordo con il Blackburn, in Premier.
«Quando lo contattammo espresse subito grande interesse per la mia offerta e per i programmi che gli avevo prospettato. Volevo vincere e lui poteva essere l'uomo giusto. Così riuscì a liberarsi e lo riportammo a Roma».
Una scelta vincente.
«È stato veramente un grande allenatore, perché oltre a lavorare sul campo riusciva ad agire anche come psicologo. Altrimenti chi li avrebbe tenuti a bada tutti quei campioni che avevo comprato?».
Già, troppi e molti in arrivo dalla Samp.
«Sapete che cosa mi disse? Presidente, lei prenda subito Mancini, Mihajlovic e Veron e vedrà che io con la Lazio vinco subito lo scudetto».
Lei non li acquistò subito.
«No, all'inizio solo Mancini, poi ho completato l'opera l'anno successivo. Decisi di cambiare quasi tutta la squadra, volevo modificare le dinamiche dello spogliatoio.
Dalla Samp presi anche i fisioterapisti non solo i giocatori. Si creò un gruppo».
Il famoso clan Mancini.
«Roberto e gli altri giocatori sono stati l'anima della Lazio e nessuno meglio di Eriksson poteva interpretarli e gestirli».
(...)
Lei, come presidente, non gli perdonò il tradimento inglese.
«Decisi di cambiare, perché non avrebbe potuto concentrarsi su due impegni così pesanti. Per lui allenare, come primo straniero, l'Inghilterra era un sogno, quasi un punto di arrivo, e allora lo lasciai andare subito e consegnai la squadra a Zoff. Ma anche in quell'occasione Sven fu limpido e sincero, come in tutta la sua carriera. Piango un amico».
«VIVEVA COME ALLENAVA QUELLE CENE CON LUI A ROMA»
Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Viveva come allenava: con stile e col sorriso».
Dino Zoff ricorda così Sven-Göran Eriksson, che chiamò alla guida della Lazio nell’estate del 1997. L’ex portiere era allora presidente del club biancoceleste di proprietà di Sergio Cragnotti. Una scelta che si rivelò vincente. Anni gloriosi, di coppe e di campioni, rimasti impressi nella memoria collettiva.
(...)
Quale eredità lascia al calcio moderno?
«Leggeva le partite alla grande, ma era la sua forza mentale a colpirmi: la capacità di entrare nella testa dei campioni, facendosi rispettare senza imporre l’autorità».
E fuori dal campo?
«Un uomo sempre piacevole, di compagnia. Mi dispiace personalmente, è una perdita che mi segna. Non ci vedevamo da qualche anno, quando s’invecchia succede, la vita è così. Ma il ricordo delle nostre cene romane lo conserverò per sempre».
Quella Lazio segnò un’epoca.
«Era una squadra che abbinava bellezza e risultati. Aveva grandi campioni e un allenatore eccezionale che sapeva come far rendere al meglio tutto quel talento. Vinceva divertendo. E divertendosi».
Il racconto della malattia ha colpito il mondo intero, andando anche oltre i confini del calcio.
«Ha vissuto la malattia con dignità e sorriso, sapeva che il suo momento stava arrivando. Ha fatto come sul campo, da allenatore, sdrammatizzando, trovando sempre modo di infondere tranquillità, serenità. Una lezione di vita, l’ultima, la più importante».
In una frase sola?
«Ha affrontato la morte come la vita: col sorriso».
il servizio delle iene su sven goran eriksson tony blair nancy dell olio sven goran eriksson SVEN GORAN ERIKSSON
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