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Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Mirka in tribuna perde la testa. Non si tiene più. Le schizza l’ombelico in campo. Deve avere altri due gemelli in corpo. Il suo trofeo per l’amato consorte in lacrime. Ma deve essere in lacrime mezzo mondo. Liquidazione emotiva al cospetto di una leggenda che non ci dà pace. Io qui genuflesso e ci starò per un pezzo fino a che non troverò un valido motivo per tornare eretto.
Diciottesimo slam a 36 anni con la grazia infinita degli infiniti. E devo ancora espiare, io, giuda, infedele, miscredente. Non ci credevo. Nemmeno sul 5 a 3, quinto set, e match point per Federer. Uno sfinimento ennesimo che rischiava e quasi pretendeva la beffa. Solo per farvi capire come si rovellano e si ulcerano i rogeriani nelle ore della sfida, incapaci di accettare la sola idea che l’orrido Topastro abbia una volta di più la meglio sul Divino, lascio qui a seguire, prima di buttarle nel cesso, le dieci righe da me scritte di getto non all’inizio, ma alla fine del quarto set, subito dopo aver brutalmente smorzato la televisione e qualunque altra fonte di notizie che sarebbero state pessime.
“Un thriller solo per i gonzi. Questi umani non imparano mai un cazzo. Tutto questo ridicolo pathos per una storia già scritta, tutto questo svenire e maledire, questo rovellarsi e ulcerarsi, questo dannarsi l’anima per nulla. La favola nera di Hoffmann è vecchia di due secoli ma vale sempre, cambiano i dettagli, le animazioni, le armi, i baffi, metti le racchette al posto delle spade, il copione non cambia, perché non è un copione ma una maledizione. Buona per atterrire l’infanzia a letto con la febbre alta.
Di qua lo Schiaccianoci, il principe leggiadro sottoposto a incantesimo, di là l’orrido Topo Mannaro dalle sette vite e dalle sette teste, la cui unica missione è usurpare il trono umiliando la bellezza con la sua feroce e sinistra volontà. In un mondo perfetto uno così non potrebbe nemmeno aprire la porta dell’ascensore a uno come Federer. Non potrebbe nemmeno avvicinarsi alle stringhe delle sue scarpe. Ma questo, basta guardarsi attorno, è molto lontano dall’essere un mondo perfetto. E così ancora una volta il Topo umilierà il Principe, che non sopporta l’idea di essere umiliato…”.
Chiedo scusa a Roger, chiedo scusa a me, a Hoffmann, allo Schiaccianoci. Oggi è stato un mondo perfetto. Il braccio mozartiano ad altissima definizione ha vinto, per nulla debilitato dal complesso Rafa, da quella trafelata, avida attitudine oltre la rete, che butta litri di sudore, stira smorfie spaventose, toccandosi il culo, la coda in fiamme, tra rumori di giungla, ottusamente proteso allo scambio ergastolano.
Non ci sono parole e dunque non cerchiamone altre, oltre. Là dove uno come Roger esiste e insiste, tutto è più sopportabile. Quanto di più vicino a una preghiera. Un grande tennista Rafa e un eccellente ragazzo, purché se ne stia lì al suo posto, alla base dell’ascensore che ti spedisce in paradiso.
Non credete mai alla stucchevole storia del fair play tra i due. E’ una finzione che due ragazzi educati sono costretti a tenere in piedi per motivi opposti e complementari. Rafa sa di essere un usurpatore, sa di non avere un decimo del talento dell’altro e cerca allora chiede in tutti i modi scusa di esistere. Roger, dal suo canto, ha una sola chance, fingere di ammirare ciò che lo usurpa. Altrimenti, l’angoscia sarebbe inesorabile. Questa volta non ne avrà bisogno. God save the King.
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