DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” - Estratti
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Lo stadio «Franco Baresi» in Mongolia, del quale lei ha messo la prima pietra, l’hanno poi costruito?
«No, era una mossa elettorale di un candidato che approfittò della mia presenza».
Tra i flash, colpisce quello dopo la sconfitta ai rigori con il Brasile a Usa ’94, in cui lei racconta la sua emozione per i brasiliani che festeggiano in memoria di Senna.
«Forse hanno anche meritato di vincere e poi avevano questa stella da lassù che li ha accompagnati. Credo che nello sport si debba avere quella forza e quella cultura per riconoscere la grandezza altrui».
Baggio non si perdona per l’ultimo rigore fallito. Sbagliò anche lei: come la vive?
«Credo si debba tranquillizzare, perché la verità è che senza di lui non saremmo mai arrivati fin lì. Io mi sono sempre ritenuto fortunato a giocare quella finale dopo la corsa contro il tempo per recuperare dall’infortunio. E farlo in quel modo, con una delle mie prestazioni migliori, resta un ricordo positivo».
antonio caliendo e franco baresi
Quando Pelé le chiese un selfie cosa ha provato?
«Ero meravigliato e emozionato. Lui era un mito».
Davvero nella foresta amazzonica ha sentito più frastuono che in un derby?
«Sì, è stata un’esperienza che mai avrei pensato di vivere. Ho visto popoli in un mondo a sé, realtà incredibili che ti fanno pensare quanto è vasto il pianeta. Questo ti aiuta a relativizzare e a dare più valore alle piccole cose».
Ci sono immagini forti. Fra tutte quella di Ribery che sviene accanto a lei, mentre visitate un reparto di oncologia pediatrica ad Algeri.
«Il calcio può alleviare le sofferenze. Noi abbiamo questa forza. In Libano siamo stati tra centinaia di profughi e abbiamo visto i bambini che con un pallone scordavano tutto in un attimo. Sono esperienze che mi hanno reso più attento all’aspetto umano: bisogna saper ascoltare, non essere superficiali, chiedere agli altri se sono felici».
franco baresi funerale di sinisa mihajlovic
Sentire Schillaci parlare in giapponese fu particolare?
«Ci fu un boato dei ragazzini. Siamo stati i primi occidentali invitati nella zona di Fukushima. Vedere le facce tristi cambiare davanti a un pallone fu indimenticabile».
Lei come si pone nel dibattito tra ex calciatori sugli abusi o meno di farmaci?
«Penso di non aver mai preso cose nocive. Secondo me il destino va oltre».
Il virus del 1981 che la tenne fuori 4 mesi cosa fu?
libero di sognare franco baresi
«Un’infezione al sangue: una volta individuato lo stafilococco, trovarono l’antibiotico giusto. Ma la ricerca non fu breve. Da giovane pensi di guarire il giorno dopo, ma passare dal campo alla sedia a rotelle fu un momento delicato: non riuscivo quasi a camminare per i dolori e mi facevo delle domande».
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È riduttivo dire che in Italia non nascono più i campioni perché c’è meno fame?
«Oggi è un altro mondo, nel quale i giovani non si focalizzano solo su una passione: per noi dopo la famiglia e la scuola c’era solo il pallone».
Camarda è diverso?
«I ragazzi oggi sono più svegli, ma hanno più pressioni e aspettative: devono essere bravi a non farsi schiacciare. E lui è un ragazzo molto regolare ed equilibrato».
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Quando esplose il Totonero lei come si sentì?
«Ero stupito, non avrei mai pensato ci fossero questi raggiri. È stato un momento di buio: capii che dovevo stare molto attento a chi mi circondava. Ci voleva una corazza».
franco baresi e federico buffa alla presentazione del libro
Dalla B al tetto del mondo: mai sofferto di vertigini?
«La mia infanzia mi ha portato a essere sempre pacato, felice quando le cose vanno bene ma consapevole che la strada è sempre lunga. Nel 1984 con Liedholm e il passaggio alla difesa a zona cominciai a capire la mia ascesa: quel gioco me lo sentivo addosso, la mia mente era portata al futuro, a un calcio più offensivo e organizzato».
Il Milan a Madrid ha risvegliato sensazioni antiche?
«È stata una gran vittoria e noi al Bernabeu non ci eravamo riusciti. Ma passammo nelle sfide da dentro o fuori e il peso era un po’ diverso».
Berlusconi la sorprendeva spesso?
«Direi quasi sempre. Abbiamo avuto un rapporto molto bello: era attento all’atleta, ma anche alla persona. E ritirare la maglia numero 6 fu qualcosa di mai visto prima. La politica? Qualche volta mi chiedeva se mi sarebbe piaciuto candidarmi a Milano. Poi ha capito che il mio carattere non era adatto».
Ha mai litigato con Liedholm, Sacchi o Capello?
«Come avrei potuto? Non ho mai avuto problemi con nessuno, forse perché poi li ho fatti vincere... (ride). Il leader è sempre un uomo semplice: deve avere coraggio, essere ambizioso ma leale e coerente nei comportamenti, per mettere a proprio agio tutti».
Il rapporto con Beppe resiste al tempo e alle rivalità?
«Sì, la rivalità è sempre stata sana e lui è stato un grande stimolo, un aiuto: era già a Milano quando arrivai ed era più avanti, anche in cucina».
Ha il rammarico di avere allenato solo i giovani?
«No, anche se penso che avrei potuto allenare anche i grandi, ma quella di rimanere al Milan è stata una scelta di vita. Coi ragazzi ci intendevamo, ci divertivamo. Ho vissuto e capito l’emozione che ti dà vincere da allenatore. Forse è più forte di quella da calciatore. È più completa».
Riceve ancora lettere?
«Sì, persino dalla Cina. Ed è giusto rispondere, rimandare le foto firmate. Ancora mi sorprende: credo di aver lasciato un’immagine riconoscibile».
L’incontro con il regista Herzog, che ha dato di lei la definizione più bella, le ha smosso qualcosa dentro?
«Sì. Quando lo sentii parlare di me in tv da Fazio mi meravigliò molto, anche perché non era un appassionato di calcio: eppure entrò nell’aspetto umano e tecnico, nella intuizione dello spazio e del gioco, come nessun altro. Incontrandolo, ho capito meglio il potere dell’immaginazione, come quello di Fitzcarraldo che issa la nave sopra la montagna. Bisogna puntare a obiettivi che magari non pensi nemmeno che esistano».
Herzog spiega che «non possiamo mai tradire il pubblico». Lei ci è riuscito?
«Me lo auguro. Quando giochi non ti rendi conto dei sacrifici che fa la gente per venire alle partite. Ma ho cercato sempre di rispettare gli altri».
Quando lei dice «chissà cosa sarei stato con un mental coach» intende che poteva rendere ancora di più?
«Sì. Il calcio di oggi nella preparazione fisica e mentale è del tutto personalizzato. E in questo modo avrei di sicuro potuto fare di più: magari avrei giocato più a lungo».
Totti che vuole tornare a 48 anni a cosa la fa pensare?
«A uno scherzo».
«Non so se oggi rimarrei sempre nello stesso club»: è una frase forte detta da lei.
«Il calcio è cambiato, io non ho nemmeno mai avuto un procuratore. Restare al Milan era una cosa naturale».
Avrebbe potuto guadagnare di più?
«Sì, ma ci si pensa sempre dopo. Certo, oggi le cifre che girano sono molto diverse».
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