DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Walter Veltroni per www.corriere.it
rino gattuso foto mezzelani gmt003
«Sono molto diverso da come vengo descritto da dodici mesi a questa parte. Si prendono dichiarazioni di anni diversi, le si isola dal contesto e si imbastiscono processi con l’obiettivo di delegittimare una persona, una vita. I tribunali sono cose serie: qualcuno accusa, qualcuno difende, qualcuno giudica. Qui il patibolo tecnologico si abbatte e definisce sentenze senza possibilità di appello. Io non sono un tipo da social. Se mi chiamano Ringhio, ci sarà un motivo. Non vado a caccia di facili consensi, non faccio il simpatico a comando.
Sono uno che lavora, che ha sempre lavorato, che ha faticato tanto e che è grato alla vita per quello che gli ha dato. Quando sento dire che sono razzista mi sembra di impazzire. Nessuna persona, mai, può essere giudicata per il colore della pelle. Conosco tanti con la pelle bianca che non si comportano bene. Il razzismo va combattuto, sempre. Ho allenato decine di giocatori che avevano la pelle diversa dalla mia, nel mio ristorante ne lavorano tre, ho avuto compagni di squadra ai quali ho voluto bene. Per me non conta il colore della pelle, conta la persona. La sua onestà, la sua lealtà».
È la prima volta che parla da molto tempo, Rino Gattuso. Lo fa senza rabbia, con un autentico dispiacere e, soprattutto, con la sorpresa di vedersi definire come non è. La sensazione è che lo specchio dei social rifletta un profilo che non è il suo. E che su questa base si fondino giudizi e campagne che lo hanno preso di mira prima in Inghilterra quando era stato chiamato ad allenare il Tottenham e ora anche da parte di frange di tifosi del Valencia, la squadra che lo ha scelto per la prossima stagione.
Una delle frasi che gli viene rimproverata è del 2008, quattordici anni fa. Rispose a una domanda dicendo che per lui, cattolico, il matrimonio è tra uomo e donna. In fondo, aggiungo io, anche Papa Francesco, di ritorno dalla Slovacchia, ha detto: «Il matrimonio è matrimonio, è l’unione tra un uomo e una donna». Personalmente non sono assolutamente d’accordo perché penso che ciascuna scelta d’amore tra persone debba essere rispettata da tutti i punti di vista.
Si tratta di diritti inalienabili che non possono essere in nessun modo limitati. Gattuso ci tiene molto ad essere inequivoco su questo: «Ma poi aggiunsi che per me ognuno è libero di fare come vuole. Ed è proprio quello che penso. Ogni libertà, compresa quella dei comportamenti sessuali, è benvenuta, è segno di progresso».
L’altra accusa che gli viene rivolta riguarda un giudizio che diede sulla capacità delle donne di gestire il calcio quando Galliani fu praticamente sostituito da Barbara Berlusconi. La conferma, gli chiedo?
«No, assolutamente no. In ogni campo le donne fanno come e meglio degli uomini. Lo stanno dimostrando nei governi, nelle aziende, in ogni settore. Più donne avranno responsabilità e meglio sarà. Le aggiungo una cosa, che può spiegare il mio stato d’animo quel giorno: io considero Galliani come la persona migliore che ho incontrato nel calcio. Sapeva dire sempre la cosa giusta nel momento giusto. E non ti faceva mai sentire solo. Quando ho capito che il suo ciclo al Milan stava finendo ho sofferto, molto».
Io credo a questo italiano che non ha vissuto nella bambagia e che ha una bella storia da raccontare.
«Nasco in un paese di pescatori, Corigliano Calabro. I miei erano falegnami. Io ho lasciato casa a dodici anni per fare quello che mi piaceva e che sentivo di saper fare: giocare al calcio. Sono andato a Perugia, da solo. Ho patito tanto, ma in silenzio. Ero piccolo però sapevo che la scelta era quella giusta. Mio padre ha avuto grande coraggio e tanta fiducia in me. Per questo l’ ho sempre amato tanto.
Mia madre ha pianto molto e mi dispiaceva. Ho vestito più di settanta volte la maglia della nazionale. Ogni volta che sentivo l’inno di Mameli, anche prima della finale di Berlino, pensavo a quando lei mi urlava di tornare a casa perché stavo, bambino, a giocare sulla spiaggia per otto o dieci ore. Mio padre è andato a lavorare in Germania per un anno e mezzo. Un quarto della mia famiglia è sparso nel mondo, tutti sono andati a cercare quella fortuna che la Calabria non gli aveva concesso. Come diavolo potrei essere razzista?».
Gli ricordo che i tifosi del Tottenham gli rimproveravano anche la testata che lui diede a Jordan, vice allenatore degli Spurs. Lì non erano parole fraintese...
«E infatti ho sbagliato e me ne vergogno. Quello è qualcosa che ho fatto. È stato un ingiustificabile errore. Certo, potrei dire che sono cose di campo. Succedono, purtroppo. Ma invece me ne vergogno. Ho un figlio di quattordici anni, lei crede che io non mi vergogni davanti a lui per quella follia, quando me ne chiede giustamente conto?».
Gli domando se sia vero che, nella fase finale della sua esperienza da allenatore del Milan, lui abbia rinunciato a molti soldi per consentire il pagamento del suo staff.
«Io sono molto riconoscente al Milan. Se io sono quello che sono, lo devo a quella società, a quei colori che ho sempre amato. Non volevo essere un peso e volevo andare via in punta di piedi».
Gli chiedo se può dirmi a quanto ha rinunciato. Gattuso resiste ma poi cede. «Cinque milioni e mezzo netti. Una parte è andata a pagare lo staff che altrimenti, con la mia uscita, sarebbe rimasto a piedi e non era giusto. Ma non mi è pesato più di tanto. Il Milan, da giocatore e da allenatore, mi ha trasformato la vita. Io non posso dimenticare quando, dopo la vittoria nella Champions del 1990 mio padre mi portò a sfilare in paese con la maglietta rossonera indosso. Ero fiero di indossarla, anche se, ovviamente era una replica, non una originale».
Continuiamo a verificare le leggende. Si dice che abbia fatto lo stesso anche al Pisa...
«No lì i soldi ce li ho proprio messi, di tasca mia. Ma sono stato felice. Avevamo centrato una inaspettata e bellissima promozione in serie B e la società si trovava in difficoltà».
Mi ha sempre incuriosito sapere cosa dice un allenatore alla sua squadra quando la allena per la prima volta.
«Dico loro che a me piace la parola Noi e non la parola Io. Il calciatore moderno è molto diverso dalla mia generazione. Sono più razionali, vivono in un contesto comunicativo diverso. Oggi un allenatore deve entrare nell’anima dei giocatori, non solo nella loro testa».
Come sa fare Ancelotti, il nostro Special Uno. «Io tifo sempre per Carlo. Come si può non farlo? Ho vinto undici trofei con lui. È un maestro. Riesce a gestire ogni gruppo. Ci riusciva trent’anni fa e ci riesce ora, come ha dimostrato al Real Madrid. Sarà bello incontrarlo in campo, nella Liga». Gli ricordo la polemica con Salvini, che per i giudici dei social stranieri deve sembrare incomprensibile, contraddittoria con il profilo che hanno inventato.
«Difendevo solo le mie prerogative e chiedevo rispetto per il mio lavoro. Ma sono cresciuto. Anche i Ringhio crescono. E ho capito che in questo mestiere, forse in questo mondo, bisogna rispondere solo sì o no. Non puoi dire quello che pensi perché quelle parole possono essere isolate, tagliate, piegate, mutate e tu ti trovi in un ritratto che è quello di un altro. E ci soffri, terribilmente. Io sono questo qui che le sta parlando, le assicuro che mi sto aprendo, che faccio l’unica cosa che so fare: essere sincero».
Allora gli chiedo un ultimo sforzo. Nel tritacarne nel quale è stato gettato con ferocia, in verità non in Italia, si è anche detto che non avrebbe la salute per allenare una squadra di calcio. «Anche qui non ho mai nascosto nulla. Ho, come tante persone, una malattia autoimmune che si chiama miastenia oculare. Ne soffro da tempo ma è assolutamente sotto controllo e non comporta alcuna limitazione al mio lavoro. Non ho nessun impedimento, tanto è vero che ho sempre allenato. E non male. Anche a Napoli, dove ho allenato grandi giocatori in una grande società».
Gli chiedo un ricordo del mondiale vinto in Germania nel 2006, l’ultimo che valga la pena di rammentare, in questi tempi grami per le partecipazioni italiani alla World Cup. «Ricordo ogni istante. Come un film. Io non dovevo partire. In un’amichevole avevo preso una ginocchiata. Lippi mi volle lo stesso. Era un momento difficile, con Calciopoli e il resto. Eravamo dei predestinati alla sconfitta. E questo ci caricò. Le voglio raccontare un episodio precedente. C’era appena stata la sconfitta del Milan a Istanbul, nel 2005. Io vado a Coverciano con la nazionale. In conferenza stampa parto con un monologo di trentacinque minuti per spiegare la sconfitta rossonera.
Torno in stanza, mi stavo asciugando i capelli, quando sento aprire la porta. Entra Lippi furioso, chiude a chiave. Mi ha sfondato. Mi ha detto che lì ero con la maglia azzurra e che solo di quella dovevo parlare. In dieci minuti mi ha insegnato molto. Il merito principale di quella vittoria è proprio suo». Per finire gli chiedo cosa desidera per sé oggi. E se vuole dire qualcosa ai tifosi del Valencia. « Desidero solo fare il lavoro che mi piace, con tranquillità . Ed essere giudicato solo per quello. Per ciò che sono, davvero».
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