DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
Alessandra Mammì per http://mammi.blogautore.espresso.repubblica.it
Ci vorrebbe un treno apposito, con biglietto scontato e dedicato a docenti e studenti di storia dell’arte da spedire tutti obbligatoriamente a Milano- Torino -Firenze (proprio in quest’ ordine) per imparare quel che di visivo accadde in Italia dal 1918 al 1968. Perché sembra frutto di una congiunzione astrale il Grand Tour orchestrato inconsapevolmente dalla Fondazione Prada , dalla Gam di Torino e da Palazzo Strozzi con curatori diversi per metodi e sguardi ma uniti nell’occasione rara di trasformare un viaggio in sussidiario.
Obbedendo alla cronologia, bisogna partire da Milano dove fino al 24 giugno alla Fondazione Prada, Germano Celant con sontuosa e rigorosa mostra dal titolo futurista “ Post Zang Tumb Tuum” (mettete in conto almeno tre ore visita) abbraccia pittura ,scultura, architettura, design, cinema e di più, per raccontare l’arte visiva dalla nascita alla morte del Ventennio. Basandosi su documenti e ricostruzioni con metodo storiografico che lo mette al riparo da damnatio memoriae e rischi di apologia, certifica i fatti prima delle opinioni.
E tra i fatti emerge che il collaborazionismo serpeggiò tra quasi tutti i pittori e ne intaccò la coscienza ma non la ricerca che fu invece grandiosa; che il più grande ( e tormentato di tutti) si rivela Arturo Martini e che le arti seguirono comunque un percorso più libero e tutto loro, in un clima ben diverso dall’arte di regime e di propaganda che fu imposto in Germania da Hitler o da Stalin nella Russia sovietica. Tanto che, a sorpresa, uno dei quadri che chiude questa rassegna sul Ventennio è la “Crocefissione” di Renato Guttuso che nel 1942 vinse il premio Bergamo ( quello fondato da Bottai), tra le solite molte polemiche che produce ogni opera che annuncia il tempo a venire.
Che è quello di scena a Torino dove ci si tuffa nel dopoguerra e in tutto “guttuso” il pittore del popolo”, l’ uomo che aveva dato immagine al nostro socialismo, l’artista, il politico e l’ intellettuale a tutto tondo tanto celebrato ma anche odiato e presto dimenticato post mortem. E che ora diventa inizio e fine di ognuna queste mostre come cerniera necessaria alla comprensione del nostro Ventesimo secolo. Per questo un non guttusiano Piergiovanni Castagnoli che da giovane si trovò a stroncare un quadro simbolo come “I funerali di Togliatti” , oggi con intelligente umiltà in questa mostra alla GAM ( fino al 24 giugno) rilegge l’artista comunista attraverso sessanta opere, ne inquadra lo spirito sessantottesco e «nella ricorrenza della Rivoluzione d’Ottobre vuole riconsiderare il rapporto fra politica e cultura attraverso l’esperienza pittorica di Guttuso e le sue opere civili dagli anni Trenta al “Funerale di Togliatti” del 1972».
Carolyn Christov Bakargiev alla mostra di Guttuso
Quadro che ora gli appare come un trionfale racconto senza tempo dove da Marx a Angela Davis, da Sartre a Pasolini convivono tutti volti e gli ideali della sinistra.
Mentre l’ancor meno guttusiana Carolyn Christov Bakargiev, direttrice della Gam e Rivoli e già curatrice molto indipendente da ogni moda e preconcetto, dichiara che “ paradossalmente, nell’era della realtà aumentata e della virtualità, la pittura di Guttuso può sembrarci tanto reale e materica quanto il mondo che stiamo perdendo”
Ed è ancora Guttuso che ci accoglie a Palazzo Strozzi a Firenze ad assistere alla “ Nascita di una Nazione”(titolo da film degno di un’esposizione da film) terza e ultima tappa del viaggio (fino al 22 luglio). Qui ,sotto la regia come sempre avvolgente di Luca Massimo Barbero il primo quadro in mostra è addirittura “La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio” del 1955: quello che appeso alle famosa scuola delle Frattocchie del PCI benediceva dall’alto la formazione dei giovani comunisti.
Stretto fra schermi che alternano Teche Rai e materiali dell’Istituto Luce, tagli di nastro di Biennale e trilli di Mina, ci introduce in una scrittura visiva lontanissima dalle precedenti dove come in una scena teatrale le opere diventano prime donne, attori/ attrici, protagoniste di una narrazione che Barbero orchestra giocando con accostamenti, volumi, improvvisi passaggi dall’accecante bianco chimico di una sala alla misteriosa penombra di un’altra.
Perché quel che questo sofisticato curatore, serio studioso ed eccellente exhibition writer ( ovvero scrittore visivo, ma in inglese è una professione) ci vuole raccontare una storia sotto e tra le righe, che non separa la pop art dall’arte povera, né l’Informale dall’Astratto, che evita i canoni e vive di dialoghi a distanza o di improvvisi innamoramenti. Chi parla qui sono appunto le opere. Alcune prepotenti e rarissime. E parlando, o meglio cantando, sfuggono ai criteri e alle categorie in cui sono state relegate per anni. La possiamo davvero chiamare “della Pop Art” quella stanza rossa dove Schifano, Angeli e Festa impugnano bandiere, rivendicano appartenenze e sposano il socialismo e le istanze del Sessantotto? E quanto è miracolosamente formale quell’ informale “sacco” di Burri impaginato con sapienza architettonica di fronte al rame ferito e tagliato da un meraviglioso Fontana? Le opere parlano, dice Barbero. E ascoltarle è dovere.
biagi guttusopalazzo strozzi firenze
Per esempio, riflettere su quanta sabbia volle mettere Gnoli nei dipinti per dar corpo ai tessuti e dichiarare che la sua era pittura e materia, non solo immagine dipinta.
E quando fu che Kounellis piazzò un fiore nero sulla saracinesca della galleria l’Attico di via Beccaria 22 a Roma? E quando qualcuno capì che quella era un’icona della nuova avanguardia e comprò tutta intera l’opera infissi compresi?
Quanto infine può diventare allegro il comunismo secondo Angeli che sparge rosse stelle e falci&martello sul caldo cotone della tela nuda tanto da trasformarle in pattners che non a caso vengono qui usate come carta da parati che ricopre l’ascensore e trasformate in oggetti del bookshop a imperituro ricordo di questa mostra?
E il rosso “No” di Schifano tutto di smalto a cosa si opponeva?
I CARRETTIERI SICILIANI GUTTUSO
E la nera coda di “Cetaceo” di Pascali che favola nascondeva?
E la perfetta semplicità del “quadro da pranzo” di Pistoletto quanto anticipava rigori minimalisti?
E’ un finale in crescendo questo viaggio italiano nell’arte italiana. Una magnifica sensazione che tutto sia legato e nello stesso tempo in fluido movimento, la consapevolezza che quella metafisica e quel realismo magico visti a Milano tornino a Firenze tra le spirali e i teatrini di Melotti ma anche nelle prime frecce di Kounellis e negli uomini grigi di Mambor, che quella realtà amplificata di un Guttuso non sia poi cosi lontana dai rossi compagni di Schifano il quale però volendo però ruba anche l’eterna attesa di una battaglia di Fattori.
Tutto si tiene e tutto si annoda, «in una ricerca personalissima che solo oggi con la distanza del passato riusciamo a guardare con maggiore e nuova lucidità» dice Barbero. E anche con una bella dose di meravigliato orgoglio, perché l’arte italiana del Novecento tutta insieme sotto gli occhi, così non l’avevamo ancora vista . Ci volevano tre mostre e tre città. E dal momento che ci sono (, per pochi mesi, contemporaneamente) non resta che fare una cosa: prendere un treno.
CRAXI TESORO GUTTUSONicolini, Achille Bonito Oliva, Renato Guttuso e Beuys a Palazzo Braschinascita di una nazione MOSTRA FIRENZENASCITA DI UNA NAZIONE MOSTRA FIRENZEnascita di una nazione MOSTRA FIRENZEnascita di una nazione MOSTRA FIRENZERenato Guttuso ai ittoriali di Palermo in divisa del GUFMARTA MARZOTTO E RENATO GUTTUSO jpegPierPaoloPasolini in una mostra diRenato Guttuso Dal PIacere alla Dolce Vita Mondadori Berlinguer davanti a i funerali di Togliatti di Renato Guttuso - Venezia 1982 (Contrasto)Renato Guttusoguttuso la battaglia di ponte dell'AMMIRAGLIO
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