DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Giulia Zonca per la Stampa
New York risponde sempre agli attacchi con le bandiere. Ne ha issata una a Ground Zero dopo l' 11 settembre e ne ha messe centinaia in strada per la maratona dell' orgoglio dopo l' ultimo attentato.
Una ha avvolto Shalane Flanagan, la prima americana a vincere la corsa negli ultimi 40 anni. Una presa di posizione su un podio che spesso è tutto africano e una vittoria spinta anche dal desiderio di rappresentare una comunità capace di risponde sempre alle aggressioni con delle prove di destabilizzante normalità.
Due milioni e mezzo di persone in strada, tanto per chiarire che la paura non ha confinato a casa nessuno e una gara decisa a ogni metro da una donna di 36 anni che non aveva mai vinto prima una 42 chilometri del circuito Major, che non gareggiava più da Rio 2016 per colpa di un brutto infortunio e che era convinta di potercela, anzi dovercela, fare dal giorno prima del via.
«Se serve rompermi una gamba per arrivare prima al traguardo, lo farò». Non è servito, sono bastate 2 ore 26 minuti e 53 di fatica. In teoria non aveva possibilità di successo, reduce da lunghi mesi di recupero, lontana dalla competizione, mai davvero considerata come rivale di Mary Keitany che ha vinto le ultime tre edizioni e sembrava puntare al record del percorso.
Invece no, ha chiuso seconda: un minuto e un secondo dietro la foga di Flanagan che al traguardo ha salutato le bandiere e poi si è stretta nella sua: «L' atletica ha questo grande potere di farti stare bene e farti superare gli orrori del mondo». La città si è è sentita come lei.
Anche l' azzurra Sara Dossena ha respirato la stessa aria, lei, triathleta convertita alla lunga distanza, al debutto nella 42 km, è arrivata sesta (2h29'39) e capito che non era un gara qualsiasi: «Uno spettacolo. La corsa come la vita deve continuare senza paura».
Lei non ne ha certo avuta, è partita con il gruppo delle migliori, ha retto i primi allunghi, si è fatta staccare allo strappo vero, a 5 km dalla fine, ma non ha ceduto. Con il suo ritmo, e un potenziale da capire, ha strappato un posto nelle prime dieci posizioni. Prima ha detto «da oggi sono una maratoneta» e poi ha ringraziato New York per l' esempio, per lo spirito combattivo.
Lo hanno fatto tutti in un tripudio di stelle strisce che hanno coperto pure Meb Keflezighi, l' ultimo uomo degli Usa che è arrivato primo in questa corsa e che si ritira con un 11° posto, gli abbracci, le lacrime. Avrebbe voluto una classifica migliore, motivato da un tifo personalizzato, però si è accontentato di applaudire Flanagan davanti al successo keniano di Geoffrey Kamworor (2h10'53).
Anche Flanagan era pronta ad abbandonare e sosteneva che farlo in trionfo sarebbe stato il massimo. Ora ci ragiona su: «Questo risultato è il mio sogno da ragazzina che diventa realtà, anzi è più bello». Da bimba già pensava a correre perché papà Steve faceva cross ad alto livello e la madre, Cheryl Treworgy, ha detenuto il record del mondo di maratona nel 1971.
L' attesa non ha fatto che crescere durante tutta la carriera. L' argento olimpico per i 10.000 metri del 2008 le è arrivato postumo, dopo un regolamento di conti per doping. Per non farsi divorare dalle frustrazioni ha scritto un libro «Corri veloce e mangia piano».
Poi Flanagan e il marito, ex atleta pure lui, hanno adottato due ragazze adolescenti rimaste orfane. Voleva correre a Boston perché lei era lì nel 2013, quando è scoppiata la bomba, ma i guai fisici le hanno chiesto altro tempo: «Sapevo esattamente in che atmosfera mi sarei trovata. Sono felice di essere la persona che ha liberato il sorriso di New York».
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