DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Bona Castellotti per "Il Foglio"
In un’intervista del 1959 Alberto Giacometti afferma che “il sublime, il mistero, sta proprio nei volti di questi uomini soli”. Tale giudizio corrisponde a un’apertura metafisica che nelle sculture e nei dipinti del grande artista svizzero s’incarna. La sua opera non rientra nella categoria del realismo, almeno sulla base di un codice estetico di stretta osservanza, tuttavia, dopo gli esordi nella sfera del surrealismo (più virtuali che espressivi), e dopo una parentesi d’ispirazione simbolista, egli si concentra nel genere del ritratto, mettendo in primo piano la figura umana; in tal senso è realista.
Denominatore comune della produzione anteriore e successiva al 1950 è la ripresa non sistematica di modelli antichi, dalla statuaria cicladica alla pittura italiana medievale. Da entrambe desume l’allungamento delle figure che traggono la linfa dal loro stesso isolamento, che, a sua volta, ne accresce l’ energia plastico-dinamica.
Nei dipinti la figura è vista sempre di fronte, entro inquadrature rigorosamente geometriche. L’indagine scava nel profondo dei volti e li definisce, mentre i corpi a mezzo busto sono resi con una sorta di abbozzo agitato. L’esecuzione apparentemente febbrile, il color grigio e il bianco, conferiscono alle persone il carattere di un’apparizione. Nulla, però, posseggono di surreale.
Il fatto di essere vive e presenti si coglie ancora meglio nelle sculture, data la tridimensionalità, in ogni particolare pulsante, e la mobilità della materia, bronzo o gesso: una materia ruvida, simile a lava non ancora raffreddata. Si disegna sui volti una componente di arcaismo scarno, che evoca, negli sguardi e negli occhi spalancati, i ritratti di Fayum. “Uomo seduto” o la “Grande testa” possono considerarsi una combinazione somatica di melanconia e asprezza, a metà tra i volti di Fayum e quello di un Boris Karloff rabbonito.
In Giacometti a prevalere non è mai il senso negativo dello svanire del tempo, del fuggire della vita, dell’attimo, bensì quello positivo della coscienza esistenziale dell’uomo che cammina, e, pur nel presente, è continuamente proiettato in avanti. Anche la solitudine non è concepita come fattore negativo, anzi essa collabora a rendere più solida la consistenza umana.
Così la persona difende e custodisce la propria identità, e non le accade mai di cederla all’anonimato di un “tipo”. Per Giacometti la massa non è altro che “un insieme di individui”. “Una volta, in un museo, mi misi a guardare quei visi e tutt’ a un tratto mi colpì la loro straordinaria vivezza e inafferrabilità, tanto diverse dalle opere d’arte che all’improvviso mi sembrarono gelide e morte”.
E’ evidente che egli scruta delle persone la dimensione interiore, e che ciò che vuole “percepire, è la totalità della vita”. Pur consapevole di non poterne svelare i misteri, riesce comunque a farli emergere in volti memorabili. Osserviamo “Diego”, “Caroline”, “Annette”, “Yanaihara”, “Francine”.
I loro ritratti sono esposti in una bella (e un po’ negletta) mostra milanese, allestita nella galleria d’Arte Moderna appena ristrutturata (sino al 1 febbraio 2015). In Italia Giacometti non è particolarmente amato; all’estero passa di trionfo in trionfo, come ne è veridico testimone “Chariot”, scultura di bronzo che rappresenta un carretto molto essenziale: due ruote che paiono infangate e una donna, longilinea come una Meridiana etrusca, che lo guida. “Chariot”, lo scorso novembre, a New York è stato venduto a cento milioni di dollari.
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