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Luca Beatrice per il Giornale
L'ironica autodefinizione di «nonna della performance» è persino eccessiva per una donna che, a 71 anni, gode di una forma fisica e mentale strepitosa.
Però tra i grandi della Body Art è rimasta solo lei, testimone di un periodo storico attraversato dalle tensioni, quegli anni '70 che cambiarono la storia. Statuaria e divistica, simpatica e generosa, Marina Abramovic porta in «tour» un'esperienza umana e artistica unica. Ad Alba, ospite della famiglia Ceretto per l'appuntamento annuale con l'arte contemporanea, Abramovic ha presentato un solo video Holding the Milk, parte di un progetto più ampio cominciato nel 2009 e incentrato sul rapporto con il cibo, nel Coro della Chiesa della Maddalena.
Un'opera che ne rappresenta il nuovo corso: Marina, vestita di nero, espressione ieratica, tiene in bilico un tazza ricolma di latte fino a rovesciarsene parte addosso. Lei, che ha sempre lavorato sui limiti fisici, da alcuni anni ha scelto strade indubbiamente meno pericolose rispetto a quando il compagno Ulay le puntava al cuore una freccia dall'arco teso, o quando insieme sbattevano contro i muri, si prendevano a schiaffi, si urlavano contro.
Abramovic è magnetica e convincente, sente la necessità di trasferire le emozioni al pubblico, con cui ha dialogato per oltre un'ora al Teatro Comunale di Alba. Il problema più urgente è riuscire a rinnovarsi sapendo che a 70 anni il corpo non è più lo stesso. Anche lei, dunque, ha trasformato la performance da impietoso e crudele lavoro su se stessa, in una specie di regia teatrale dove fa lavorare gli altri, insistendo sulla condivisione di gesti semplici e ordinari come contare i chicchi di riso, camminare lenti, isolare da suoni e rumori attraverso le cuffie. In queste operazioni che lei chiama immateriali si sintetizza il nuovo corso di Marina Abramovic che, francamente, non mi ha mai convinto.
Chissà perché a un certo punto chi fu trasgressivo si trasforma in una specie di guru, un sacerdote abilitato a trasferire agli altri presunti frammenti di sapienza che il più delle volte sono assolute banalità. Certo, non sarà mai insopportabile quanto Michelangelo Pistoletto e il suo Terzo Paradiso, ma sentirla parlare di energia e di mistica stona indubbiamente con la sua storia. Altri, come Bruce Naumann, hanno scelto l'isolamento e il silenzio; Abramovic ha il grande merito, tra gli altri, di aver reso popolare un linguaggio di nicchia come la Body Art. Non era facile, e questo è stato il suo ultimo colpo di genio.
"CIBO E SPIRITUALITA', UN DUELLO ARTISTICO"
Sara Ricotta per la Stampa
Se la vita è arte, anche un a intervista può diventare una performance. O almeno te lo aspetti se sai di incontrare Marina Abramovic, la performer per antonomasia, e ti immagini tu a farle domande e lei a fissarti immobile, in silenzio, come ha fatto per 700 ore davanti a migliaia di persone al MoMa di New York.
Invece lei distingue bene tra arte e vita e risponde puntuale, dando soddisfazione all' interlocutore e raccontandoti il menu - concettuale, ça va sans dire - che uno chef tristellato le ha dedicato l' altra sera.
Non è un caso che si parli di cibo perché l' Abramovic è ad Alba a presentare Holding the milk , video installazione che fa parte di The kitchen-Homage to saint Therese , progetto artist ico del 2009 fatto di nove fotoritratti e tre video.
La cucina e la santa, la più mistica di tutte - Teresa d' Avila - quella che potrebbe sembrare più lontana dagli odori e dalle tentazioni provenienti da pentole e fornelli. Invece è proprio lei a citarli, nelle Fondazioni (V,8), quando dice alle consorelle che, «vi mettesse pure in cucina, il Signore verrebbe ad aiutarvi... anche là, fra le pentole». Un passo che è finito persino negli esercizi spirituali predicati al Papa durante la Quaresima.
Insomma c' e del sacro, in cucina, e così è sembrato perfetto esporre l' opera nel coro della chiesa della Maddalena, nel centro di Alba. La gente entra e trova uno spazio di meditazione, se non proprio di preghiera. Sotto un grande Cristo ligneo, la Abramovic in lungo vestito nero impersona la mistica spagnola che regge una ciotola di latte nelle cucine di un ex convento abbandonato.
L' installazione rimarrà esposta fino al 12 novembre e fa parte dell' opera di promozione dell' arte contemporanea che i Ceretto, produttori di vini, portano avanti nelle Langhe ormai dagli Anni Ottanta, quando hanno cominciato ad affidare prima le etichette e poi le cantine stesse a grandi artisti. Fra le ultime avventure tra arte e vino, anche il sodalizio con lo chef Enrico Crippa - 3 stelle Michelin - che guida la brigata del ristorante Piazza Duomo. È a un suo tavolo che abbiamo incontrato la Abramovic ed è lì che lei ci parla di cucina e arte.
The Kitchen è un omaggio a Santa Teresa d' Avila, perché?
«Perché era una santa da performance. Quando ho letto la sua Vita mi ha colpito il legame tra spiritualità e cibo, e come si fosse arrabbiata con la potenza divina per averla portata in levitazione mentre si stava preparando una zuppa; così, là in alto e affamata, non poteva mangiarne. Come puoi, mi chiedevo, arrabbiarti col divino quando ti dà il potere di levitare? È il lusso di essere straordinari».
Teresa aveva esperienze straordinarie, come la levitazione, ma cercava di combatterle e lottava perché non avvenissero in pubblico. Lei, invece, le mostra al mondo. Qual è il messaggio?
«Aiutare i visitatori a capire che se lo faccio io possono farlo anche loro. Dimostro che non ci sono ostacoli insormontabili, anzi, come dice il titolo della mia autobiografia io invito a Attraversare i muri , perché se non li attraversi non sai cosa c' è dietro. Il mio messaggio quindi è "Forza! Let' s go!».
Trova altre affinità con santa Teresa? Lei si considera una mistica?
«No, io non sono né mistica né speciale. Sono un' artista e la mia funzione è portare un messaggio. La mistica però mi interessa, così come spunti spirituali da altre culture che possono aiutarmi per il mio lavoro».
Lei è nipote di un santo - suo nonno - che effetto le fa?
«Che effettivamente vengo da una famiglia con un mix folle, papà e mamma eroi di guerra partigiani comunisti e nonno santo; in Usa stanno portando avanti il progetto Find your roots sul Dna, e io mi aspetto che nella mia genealogia ci sia Gengis Khan».
Lei che ha fatto una vita libera, d' artista, che ne pensa delle suore di clausura come Teresa, oggi?
«Che se chiudersi è una scelta libera, va benissimo, io sono contro tutto ciò che è imposto a forza».
Dalla cucina di Santa Teresa a quella della sua nonna materna, nel suo «memoir» lei scrive che il lavoro sulla santa stava diventando una meditazione sulla sua infanzia, quando quel luogo era il centro del mondo e lì venivano raccontate tutte le storie: quali?
«Quelle di famiglia, personali, la nonna mi parlava della sua vita, aveva saggezza e sapeva che tutto è connesso. Mi spiegava cose grandi e piccole, come guardare il mondo e cosa mangiare, soprattutto mi insegnava a non aver mai paura. Di niente e di nessuno».
C' è un nesso fra la scelta di portare un' opera di Kitchen ad Alba e il fatto che le Langhe siano un tempio della cucina?
«Qui la cucina è qualcosa di spirituale e ha dei rituali, c' è attenzione al gusto, alla presentazione, è assolutamente arte.
Lei si è definita la «nonna della performing art» già molto tempo fa, perché?
«Appunto, l' ho detto molti anni fa e vorrei non sentirlo più, grazie. Ora definitemi "guerriera", è più adatto. Perché sono sopravvissuta».
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