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Valeria Parrella per Repubblica.it - Robinson
Forse la cifra prima, il primo tratto che percorre la mostra allestita a palazzo Altemps su Alberto Savinio è la felicità. Una felicità di giovinezza, di intelligenza, di nuovi inizi e sole, la felicità intesa come fiducia nel progresso e capacità di giocare, affidarsi all’infanzia come chiave di interpretazione della realtà: questa felicità balza agli occhi del visitatore, percorre l’allestimento, attraversa tutta la produzione di Savinio.
Certo è concetto sfuggente, è più facile, e dunque forse sarebbe più giusto, parlare di parametri concreti; eppure se ciò che l’arte può produrre, ottenere nel suo fruitore è la felicità, allora Savinio vi riesce: lo scopo, uno degli scopi, è compiuto, e anzi il supporto materiale delle opere ci aiuterà nella definizione del sentimento che le pervade.
Succederà dunque che, inondate le sale di un sentimento, sia esso a guidarci nell’attraversarle: sia la nostra guida, chiedersi: ma da dove scaturisce, cosa? perché, come fa questo artista così lontano da noi? Una possibile risposta è che non sia affatto lontano, ché le opere d’arte hanno questo di magico: di non invecchiare mai, non diventare mai desuete, non perdersi con le mode, tornare sempre a visitarci (sì sono loro che vengono da noi, oppure non sono opere d’arte).
In questo Savinio appare, in questo allestimento, come un “classico”, quello che noi occidentali europei siamo abituati a considerare tale, noi che non ci spingiamo mai oltre l’epoca bizantina per usare questo aggettivo sostantivato. Ecco che la scelta dell’edificio ospitante diventa fondamentale.
Di questa evidente corrispondenza, tra l’esterno e l’interno, tra ciò che permane e ciò che transita, va ascritto il merito alla curatrice, Ester Coen (con la collaborazione di Zelda De Lillo, organizzazione Electa, fino al 13 giugno), e a una certa tendenza originatasi negli ultimi anni dai nostri soprintendenti e direttori dei poli museali.
Una capacità di sperare, augurarsi che i due aspetti che sono chiamati a custodire: conservare e scoprire, coincidano. Ci riescono. Il palazzo Altemps è certo uno degli edifici più belli di una città che ha tanto di bello, da viversi i suoi capolavori con eccessivo understatement: sarà questa anche l’occasione, per i romani e i laziali, intanto, di andarselo a guardare, scoprirlo, riscoprirlo.
Il palazzo è una delle sedi del Museo nazionale Romano e illustra il collezionismo nel Cinquecento e nel Seicento: raccolte di sculture delle famiglie Altemps, Boncompagni, Ludovisi, Mattei. Ecco che quell’idea di gioco di cui si diceva all’inizio, e che è sia esplicitata in maniera diretta da Savinio, nelle opere dedicate, sia manifestata dal suo essere totalmente artista, cioè dal saltellare tra la scrittura drammaturgica e la vocazione da romanziere, essere pittore, musicista e far anche scenografia e costumi, trova un suo potente specchio nel gioco del collezionismo preesistente nelle sale.
Così, per analogia, nella Sala Grande del Galata c’è un fondale di scena che Savinio disegnò per l’opera Hoffmann e la Musa in cui la posa delle figure è esattamente la stessa sia nel gruppo marmoreo che nei soggetti della tela. Nella Sala degli obelischi, dove ci sono le statue classiche delle muse, viene esposto il più celebre dei figli di Calliope, l’Orfeo del 1929, il cui corpo si trasforma in una lira.
Nella Sala delle prospettive dipinte, che ospita l’Hermes loghios viene allestito il Prometeo dello stesso anno, e così via per novanta opere che arrivano da gallerie, musei e collezioni private. Ma arrivano anche dal Teatro alla Scala di Milano, e dal Gabinetto Vieusseux, a testimonianza della infinita capacità (in pochi anni, sessanta di vita e quaranta di attività) di Savinio di moltiplicarsi per le arti, non unico, nella sua famiglia, ma con più leggerezza di quanta appaia nell’opera di Giorgio De Chirico.
E infatti al gioco si torna e dal gioco si parte osservando la cura che Savinio dedicava ai suoi libri, in cui era artefice di tutto, dal testo all’illustrazione di copertina: c’è un Ascolto il tuo cuore città edizione Bompiani che vale tutta la mostra, nella prima sala (anche qui va notato l’allestimento a forma di scatole – di fiammiferi, di scacchi, di giochi- che contengono i pezzi piccoli della collezione).
E da lì i giocattoli sono tutto, sono dappertutto. Sono Oggetti abbandonati nella foresta nel 1928, o l’equipaggio di un vascello ne Le navire perdu, gli abitanti di un’isola ne L’Ile de charme, o il tesoro, su quell’isola nel quadro omonimo. Giocattoli sono Sodoma e Gomorra e i re magi, e i giocattoli segnano l’abbandono o arrivano dai flutti marini.
Ed è commozione e sollievo assieme scoprire che i giocattoli stanno lì a guardare il mondo da una finestra (Souvenir d’enfance a Athenes, 1930) come le muse se ne ispiravano per Giorgio De Chirico. Qui, in questi cieli, in questi passaggi, nella composizione interna dello spazio, tra la finestra e un drappo, c’è la Madre Grecia dai fratelli De Chirico immensamente amata e per sempre ricordo, souvenir appunto, dei giorni felici.
E allora forse il sentimento di felicità nasce non solo dall’opera di Alberto Savinio in sé, ma anche da questa magnifica intuizione: cioè l’incontro tra ciò che è nostro patrimonio permanente e ci ricorda da dove veniamo, e ciò che di volta in volta l’arte innova, e il fruitore finale, noi. Quello spettatore, quell’individuo solo, naufrago nel Paese, nel tempo della crisi. È solo nella relazione che accade il gesto artistico: si compie.
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