DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Maurizio Crosetti per “il Venerdì di Repubblica”
Le ragazze decollano, i ragazzi le lanciano in alto e poi le riprendono al volo. Qui non ci sono campioni, solo squadre. Non ci sono gare individuali ma soltanto di gruppo. Il più delle volte i ragazzi sbagliano e ci ridono sopra, non fanno drammi perché sanno che è in gara che non si deve sbagliare. Sono cheerleader: chi le chiama (e "li" chiama, perché i maschi sono sempre di più) "ragazze pon pon" è fermo allo stereotipo e non sa nulla.
Neanche noi sapevamo, prima di raggiungere la palestra "Titans". Dove Alba scolora verso Asti, c'è un lungo rettilineo frantumato dalle rotonde e poi capannoni, ipermercati e concessionarie d'auto. Qui si allenano i ragazzi di "Alba Cheer": cominciarono in cinque nel 2013, cioè quasi l'altro ieri, esiste una foto a testimoniarlo, e adesso sono quasi 150. Una ventina di loro stanno per volare a Orlando con la selezione nazionale FICEC Team Italia ICU, dove il 20 aprile cominciano i mondiali: Alba è la principale realtà italiana di uno sport completo e spettacolare, non solo un insieme di coreografie per invitare il pubblico a fare il tifo.
Dimenticate le immagini viste tante volte al cinema, e sappiate che tutto cominciò alla fine dell'Ottocento in America, a Princeton, ed erano solo maschi fino al 1923. Oggi sono tre milioni e mezzo in tutto il mondo in un centinaio di nazioni, anche se gli Usa continuano a essere il primo riferimento. Sono stati cheerleader, per dire, anche Ronald Reagan, George W. Bush e persino Roosevelt. Vi sembrano tre ragazze pon pon?
I GIOCHI SUL TAPPETO
Su un quadrato imbottito di 14 metri per 14, il tonfo dei corpi sui materassi d'allenamento è quasi un ritmo da tenere per coordinare i movimenti. Qui tutto è ritmo, ogni esercizio viene scandito in ottave, senza musica: la musica si mette alla fine, quando i dj "vestiranno" l'esercizio, e il resto lo faranno gli effetti speciali.
Ma ci sono anche gli affetti speciali, quel senso di partecipazione che si percepisce non appena varcata la soglia. Leggiamo le scritte che tappezzano il perimetro. "Il tuo futuro è creato da quello che fai oggi, non domani". "I campioni non sono quelli che non sbagliano mai, ma quelli che non mollano mai". "Tutto comincia con un sogno". "I trofei si vincono in allenamento, in gara si va a ritirarli".«Abbiamo un rito: quando vinciamo una coppa, la sera torniamo in palestra e ci facciamo una foto tutti insieme, anche se magari bisogna percorrere parecchia strada.
Nei giorni del coprifuoco abbiamo pure preso una multa perché era tardi, e stavamo qui»: Simone Villa è il titolare della Titans, ed è colui che ha creduto che Alba potesse diventare la capitale italiana del cheerleading. «La nostra è una realtà sociale forte, abbiamo eccellenze albesi che tutti conoscono come i cibi e i vini, abbiamo la Nutella, abbiamo la Fiera del tartufo bianco ma abbiamo anche questi ragazzi che si fanno valere, che si allenano ogni giorno, che si pagano le spese e coltivano un sogno: andare, un giorno, alle Olimpiadi».
Perché il cheerleading è già entrato nel Cio, anche se non come disciplina agonistica: potrebbe accadere nel 2028 a Los Angeles, visto che gli States sono la terra madre di questo sport. «Ma non dovrà essere una toccata e fuga: siamo un movimento mondiale, e quando entreremo ai Giochi dalla porta principale sarà per rimanerci».
IL GINNASTA MURATORE
In palestra si guardano gli esercizi e si resta a bocca aperta di fronte a sollevamenti, piramidi, esibizioni a corpo libero e salti. Ogni sessione di gara dura appena due minuti e quindici secondi ed è una giuria a stabilire chi vince. «Servono tecnica, forza, coordinazione e senso del ritmo» racconta Francesco Armillotta, team manager della Ficec (Federazione italiana cheerleading e cheersport). Il suo mestiere è scattare fotografie. «Un giorno mi assegnarono un servizio sul cheerleading, sono entrato in contatto con questa realtà, mi sono innamorato e non ho più smesso».
I ragazzi che gareggiano hanno dai 16 ai 25 anni, alcuni provengono dalla ginnastica ma non è obbligatorio. La novità che più sorprende è la presenza maschile. «Se volete, potete considerarmi un muratore pon pon», scherza Francesco Cordero, 19 anni. Il suo lavoro è proprio questo: muratore.
«Con il cheerleading ho cominciato nove anni fa, in pratica ero un bambino. Lessi un volantino al mio paese, Piasco, qui nel Cuneese, e mi venne voglia di provare. All'inizio i maschi mi prendevano in giro, io non mi arrabbiavo e rispondevo: venite a vedere e capirete». Qualcuno andò, e capì.
Francesco è reduce da un infortunio alla caviglia, questo è anche uno sport traumatico e rischioso, farsi male capita, il controllo del gesto può sfuggire. Quella che non deve sfuggire mai è la ragazza che viene lanciata in aria e afferrata al volo, e c'è da aver paura se non si è mai visto da vicino un esercizio. Ma gli atleti e le atlete sanno quello che fanno.
UN SALTO OLTRE GLI STEREOTIPI
«La cosa bella è il pubblico che partecipa e tifa per tutti, non solo per la propria squadra» dice Simone Villa. «Non c'è fanatismo tra genitori e parenti, si partecipa a qualcosa di coinvolgente, un'esperienza comune che può durare anni. Qui si cementano amicizie vere. Non ci sono titolari o riserve: anzi, tra avere un atleta molto più forte dei compagni, oppure una squadra di livello più omogeneo e senza picchi, è preferibile la seconda cosa.
Perché così aumenta l'equilibrio del team, e la prestazione migliora. Dobbiamo lottare contro stereotipi e pregiudizi, però sappiamo che basta vederci anche una sola volta in azione per capire chi siamo». Ai mondiali di Orlando, ogni ragazzo partecipa pagando una quota di circa duemila euro. Purtroppo, a livello di sponsor e contributi il cheerleading è ancora un po' indietro, ma il movimento cresce e il possibile sogno olimpico potrebbe aprire le porte del Coni.
Oggi in Italia ci sono circa duemila tesserati: non pochi. A Orlando, il podio resta una chimera ma tra le dieci migliori nazioni al mondo si può arrivare. I più forti sono americani, messicani, inglesi, cinesi e nord europei. L'Italia, non più così indietro. Nel 2019 si arrivò undicesimi, nel 2016 addirittura sesti. «È tutta una scala da salire, un grande salto: del resto, il salto è uno dei gesti classici del nostro sport». Intanto, qualcuno passa nel corridoio e scrive il proprio nome su una parete, a pennarello.
«È il muro delle firme e non è riservato solo ai nostri atleti. Anche questo è un segno di comunità». Nella geografia del cheerleading italiano non c'è soltanto Alba. Brillano Palermo, Verona, Roma, Borgosesia, Siena in una mappa dove metropoli e città più piccole fanno sistema. «Puntiamo molto sul valore educativo e sul senso del gruppo» racconta Villa. «Il nostro sport insegna che da soli non si può combinare niente, e che ogni conquista è un lavoro collettivo». E così, tra cubotti di gommapiuma e pavimenti imbottiti si vola e si atterra, qualche volta in piedi e qualche altra cadendo, poi però si rimbalza e si torna a decollare come gli eroi dei cartoni animati. Quelli che non sembrano umani, e invece lo sono tantissimo.
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