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DAGOREPORT - SE IN FORZA ITALIA IL MALCONTENTO SI TAGLIA A FETTE, L’IRRITAZIONE DI MARINA E PIER…
Gianni Mura per “la Repubblica”
Con Paolo Maldini partiamo dalla foto. Papà Cesare gli tiene un braccio sulla spalla e sorride, ma non troppo. Non sta esponendo un gioiello di famiglia (è ancora presto). È un padre, famoso, accanto al figlio che ha scelto lo stesso sport. Dal fango sul pallone e sulle gambe del ragazzino si può dedurre che il campo fosse pesante per la pioggia. E anche dall’impermeabile del padre, che però non rinuncia ai mocassini con le nappine.
Non rinunciava neanche da vice di Rocco, nei giorni di cattivo tempo a San Siro. E il Paròn, che nella circostanza usava vecchie scarpe bullonate, gli faceva battute in triestino. Tipo: “La sfilada de moda no xé qua”. Cesare, come Yanez, ha in mano l’ennesima sigaretta.
«Ma da molti anni aveva smesso», dice Paolo. «Non mi sono ancora abituato a parlare di mio padre al passato. In testa mi viene spontaneo il presente. Comunque, nella foto ho 14 anni. Non riconosco il campo, sicuramente di periferia, ma non è quello di Linate».
Come aveva accolto Cesare la prospettiva di un figlio calciatore?
«Come un padre all’antica. Giochi solo se vai bene a scuola, altrimenti smetti. Io ero il primo dei maschi e quindi il primo a provarci. Erano nate Monica, Donatella che ha giocato a basket in A2, Valentina. Dopo di me Alessandro, che ha giocato a basket nelle giovanili della Tracer, e Piercesare, passato per le giovanili del Milan e poi calciatore a Pavia, a Viareggio. Dalla squadra dell’oratorio di piazza San Pio X sono passato a quella del Milan. All’oratorio il campo era di cemento e io da piccolo avevo la fissa di giocare in porta. Mi tuffavo e mi conciavo di brutto.
Per me era un gioco, non pensavo alla fama di mio padre. A casa, nel piano sotto al nostro un mio compagno di scuola aveva un grande terrazzo: giocavamo uno contro uno, anche due contro due. Ho scoperto casualmente che mio padre, quand’era a casa, e non succedeva spesso, ci guardava dal nostro balcone. Riandando a quegli anni, ho scoperto un’altra cosa: che mi allenavo da solo, contro un muro, a un tocco, a due tocchi. E tornando da scuola scendevo due fermate prima e correndo facevo la gara contro il tram. Ecco, credo che la mia competitività sia nata allora ».
In che senso Cesare era all’antica?
«Non era molto espansivo, ma ho capito quanto amore ci fosse nel suo modo asciutto di esserci vicino, anche quando allenava a Foggia, a Terni, a Parma. Quando eravamo tutti insieme, guai a far casino a tavola e quando partiva il Telegiornale. Il silenzio assoluto in una tavolata di otto persone come minimo è un’utopia.
CESARE MALDINI IMITATO DA TEO TEOCOLI
A volte eravamo di più, ai tempi dei primi morosi, delle prime fidanzatine. Mamma e papà univano le strategie: portateli a pranzo o a cena, così li conosciamo. A noi sembrava una bella apertura di fiducia, ma era anche un modo per capire chi frequentavamo. Quando avevo l’età per il motorino, mio padre me lo ha sempre negato. Basta un attimo di distrazione e hai chiuso col pallone, diceva ».
E quindi?
«Quindi ne fregavo uno a caso alle mie sorelle. Qualche scontro con papà l’ho avuto. Lui aveva il suo carattere, io il mio. Niente di grave, ma se c’era una stupidaggine a portata di mano io la facevo. Mai in campo, solo fuori. Ricordo benissimo la faccia che fece quando rincasai alle 7 di mattina.
Vacanze in Versilia, lui era alle Olimpiadi di Los Angeles, mia madre si fidava anche se facevo le ore piccole, magari non così piccole. Non avevo calcolato le date, mio padre era appena rientrato ed era in strada ad aspettarmi. Diciamo che non la prese bene».
Come andò con gli studi?
«Bene, fino alla terza liceo scientifico al Leonardo da Vinci. Bocciato, provai a recuperare l’anno frequentando un istituto privato ma non ce la facevo a tenere insieme libri e pallone. A 13 anni avevo tre allenamenti settimanali, marte- dì, giovedì e venerdì, più la partita. Ed è una cosa che tengo sempre presente, quando parlo con i miei figli ma soprattutto, se me lo chiedono, coi genitori dei compagni dei miei figli».
La sua vocazione, chiamiamola così, quando nacque?
«Credo sia nata guardando in tv i mondiali del ‘78, guardavo soprattutto Bettega. Quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto provare in una squadra vera, mio padre, oltre all’immancabile riferimento all’importanza dello studio, mi fece solo due domande: vuoi giocare nell’Inter o nel Milan? Vuoi giocare in porta o fuori?».
Curiosa, la prima domanda.
«Non voleva che mi sentissi obbligato a percorrere la sua stessa strada, voleva che mi sentissi libero».
Lo è stato?
«Sì, anche grazie al comportamento di mio padre che non mi ha mai spinto, né ha preteso per me scorciatoie. A 10 anni arrivo al Milan e il tecnico chiede a mio padre: signor Maldini, dove lo faccio giocare? Ah, non so, veda lei, disse mio padre, e andò in un angolo della tribuna, il più lontano possibile dal campo. Esordii da ala destra.
Ma la voce di “figlio di” mi ha accompagnato fino alla prima squadra. Giochi solo perché sei il figlio di Maldini: voci di avversari ma anche di genitori dei miei compagni. So che a Sandro Mazzola era stato riservato lo stesso trattamento. Ed è per questo che vorrei risparmiarlo ai miei figli».
È ora di ricordare una frase di Cesare: “Lui non è più il figlio di Cesare, io sono diventato il padre di Paolo”. Non male.
«Sapeva essere spiritoso, cresciuto alla scuola di Rocco ma rigorosamente astemio. Quando è morto, ho ricevuto tantissimi messaggi dai ragazzi con cui aveva vinto l’europeo Under 21 tre volte di fila, anche quando non aveva uno squadrone. Segno che con i ragazzi aveva un rapporto forte e chiaro. Non è mai andato a parlare con i miei allenatori, lasciava fare, rispettava i ruoli.
Grazie a Dio mi hanno insegnato tanta tecnica e poca tattica, per la tattica ha provveduto Sacchi. Il Milan, anche nelle giovanili, ha sempre privilegiato la tecnica, mentre altre squadre, Inter, Torino, Atalanta, sono più fisiche.
Con i miei figli faccio come faceva mio padre: li seguo senza assillarli, non m’importa se diventeranno campioni o si fermeranno a metà strada o smetteranno tra due mesi. Lo studio conta, come conta che siano felici. Non sono mai andato a parlare coi loro allenatori, nemmeno quando erano miei ex compagni, come Nava ed Inzaghi. Ci vuole rispetto, diceva spesso mio padre. Ed è vero, ci vuole rispetto: dei ruoli, delle regole, dell’arbitro, degli avversari. Una sera, in ritiro con la Nazionale, ho detto fuori dai denti a un compagno: se t’azzardi a fare con questa maglia le entrate che fai in campionato, io t’ammazzo. Da capitano, potevo permettermelo».
A che punto sono i suoi figli tra studi e pallone?
«Studi a posto. Christian è un armadio, gioca da difensore centrale nella Primavera del Milan e in tre anni è cresciuto di quasi 30 centimetri. Ha 19 anni, alto 1.88. Daniel ha 15 anni e, sempre al Milan, gioca nei Giovanissimi. Non sono indulgente, direi comprensivo. A quell’età, è difficile avere tempo per altro.
A me non è mai pesato. Il periodo tra i 17 e i 18 anni è il più delicato. La famiglia è fondamentale. In più, ho avuto la fortuna di entrare a 17 anni in uno spogliatoio dove si impara in fretta, da compagni come Baresi, Evani, Galli, Tassotti, Terraneo. E si cresce in fretta. A 19 anni sono andato a vivere da solo. Mia madre lo sapeva da sei mesi, a mio padre l’ho detto solo la sera prima del trasloco».
Oggi cosa può insegnare il calcio?
«Uno sport di squadra, tutti e non solo il calcio, insegna tante cose. C’è meritocrazia, giocano i migliori, non il più ricco o il più simpatico. Se un compagno è in difficoltà, devi dargli una mano. Se sbagli, assumiti la responsabilità e non scaricarla sugli altri. Tutte cose che servono anche nella vita. Se uno è bravo in campo è bravo anche fuori. Idem se è una carogna.
SILVIO BERLUSCONI CESARE MALDINI
Mio padre diceva: comportati bene, sii onesto, impegnati sempre al massimo e il 90% è fatto. Ora, è tutto più difficile: ci sono ragazzi che a 13 anni hanno il procuratore e lo sponsor tecnico, ci sono genitori convinti di avere in casa il nuovo Messi, e gli scaricano sulle spalle le loro aspettative, ci sono allenatori che pensano solo alla classifica e non alla crescita mentale del ragazzo, che magari arriva da lontano e non ha il sostegno della famiglia. So che sui miei figli c’è più peso di quanto ne ho avuto io. E vigilo».
E Paolo Maldini nel Milan del futuro?
«In un momento così difficile per la squadra e la società potrei dire che è meglio tacere. Ma dirò quello che ho detto a Berlusconi l’ultima volta che ci siamo visti: se ci sarà la possibilità di ridare qualcosa al Milan, che tanto ha dato alla famiglia Maldini, io ci sarò. Ma servono condivisioni, serve che mi accettino per come mi conoscono ».
silvio berlusconi 2
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maldini paolo
CESARE MALDINI
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