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Carlos Passerini per il Corriere della Sera
«Su, entri, che fuori fa freddo». Sorride, la signora Anna. Apre la porta ed è la prima volta, da quel giorno là. Non aveva mai parlato da quella domenica, aveva anche smesso di andare in paese, su in bottega, «ora però le cose vanno un pochino meglio». La forza del Natale, dice. La famiglia, i nipotini, la vita che deve andare avanti, comunque. «Ne ho altri due, di figli, sono una madre, ho il dovere di essere forte anche per loro». Sorride, aggiusta la tovaglia bianca con i cuoricini rossi. Sì, cuoricini rossi. «È quella di Santa Lucia, avrà vent’anni ma è ancora buona, Davide l’adorava, anche da grande ad ogni Santa Lucia mi diceva: mamma, ricordati la tovaglia bianca e rossa».
La signora Anna dice che vuole la verità su suo figlio, sul suo Davide. Che se qualcuno ha sbagliato lei lo perdona, anzi l’ha già perdonato, «e prego per lui, perché starà passando un brutto Natale, e non dovrebbe capitare a nessuno», ma che lei vuole sapere, che deve sapere, «anche se nessuno me lo restituirà più, il mio Davide». Versa il caffè. Allo zucchero ci pensa Renato, il marito, gli stessi occhi buoni, lo stesso profilo di Davide. Alle sue spalle, accanto alla credenza, un poster di quella volta che il suo bambino aveva esordito con la Nazionale. Alla base la scritta «Davide Astori, difensore». Anna la osserva, resta un istante in silenzio. È un filo storta, la raddrizza con un tocco dolce come una carezza, poi sorride di nuovo.
Fuori, ai bordi della statale che sale a Foppolo, mucchi di neve. Era così anche quel 4 di marzo, la lunga coda dell’inverno brembano, la domenica in cui il cuore grande di suo figlio ha smesso di battere in una camera d’albergo, la notte prima di Udinese-Fiorentina di campionato. «Quella mattina io e mio marito dovevamo andare alla messa e poi a votare, che c’erano le elezioni. Io però mi sveglio e ho le braccia come paralizzate, fredde, il corpo vuoto, una sensazione che non avevo mai provato in vita mia. Non sapevo nulla, ma sapevo già tutto». Il suo Davide non c’era già più. Un’ora dopo una telefonata di cinque parole avrebbe cambiato la loro vita: Davide non si è svegliato.
La signora Anna forse avrebbe continuato a custodire per sé e per sempre la propria atroce condanna eterna di madre che perde un figlio, se non fosse che la notizia della chiusura delle indagini è stata per lei e il resto della famiglia un altro momento difficile, un’altra prova. «Io voglio un perché, non voglio un colpevole, perché sono sicura che un colpevole non esiste», dice la mamma. «Quello che è successo è stata una disgrazia, una fatalità, io lo so, nessuno lo ha voluto, ma voglio allo stesso tempo che non succeda mai più, voglio che nessuna madre mai più debba provare quello che ho provato io. In Italia sono bravissimi nei controlli medici sugli atleti, ma devono diventare ancora più bravi, ancora più sicuri. Voglio che il sacrificio del mio Davide non sia stato inutile».
Da un po’ la signora Anna ha trovato anche la forza di andare giù al camposanto, a trovare il suo Davide. Prima no, non ci riusciva. Dice però che per lei il suo bambino non sta sotto terra né da un’altra parte, «è di là che gioca, nella cameretta, con i suoi fratelli Bruno e Marco». La stanza del figlio è di mille colori, il viola della Fiorentina, il rossoblù del Cagliari, il giallorosso della Roma, il nerazzurro dell’Atalanta, il biancorosso del San Pellegrino dove tutto cominciò tanti anni fa, e dove oggi e per sempre la scuola calcio avrà nome Davide Astori.
In una teca, sulla sinistra, sotto una maglia col numero 13, accanto alla fascia da capitano della Fiorentina e sopra a una targa di bronzo del torneo della Val Brembana, c’è una foto che ti entra nell’anima, che ti si stampa dentro. Davide, la Vichi, la Franci. La Francesca, dice la signora Anna, «è una mamma di una bravura che non si può spiegare». Vittoria, la bimba, è biondissima e bellissima. Ha due anni e mezzo. L’altro giorno il nonno Renna stava sfogliando la Gazzetta dello Sport, c’era una vecchia foto di Pasqual che abbracciava Astori. Vittoria sorride e, serena come sono sereni solo i bambini, dice: «Quello è il mio papà».
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