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Antonio Barillà per la Stampa - Estratti
paolo montero pugno a di biagio
Paolo Montero raggiunge il J Museum con l’amico Gianluca Pessotto. Erano inseparabili da calciatori, benché così diversi, l’uno focoso, l’altro pacato, e lo sono oggi che lavorano accanto nel settore giovanile bianconero, l’uruguaiano tecnico dell’Under 19, Pesso con un ruolo dirigenziale. Una doppia veste, la loro, in questo Centenario: tesserati di oggi e leggende di ieri, custodi di ricordi che risalgono all’Avvocato Giovanni e al fratello Umberto.
«Arrivare alla Juventus con loro è stata una fortuna» esclama Montero, riepilogando immagini lontane: fu acquistato nel 1996 ed è rimasto nove stagioni, lasciando una traccia profonda nel cuore dei tifosi per il rendimento ma, ancor prima, per l’impegno: ogni partita una battaglia, a volte perfino esagerando, la fama del cattivo ma con un suo codice d’onore.
Montero, in un recente commento sulla celebrazione del secolo bianconero degli Agnelli ha definito la Juventus una famiglia.
«Lo penso sinceramente. La Juventus è tutto ciò che la parola famiglia racchiude: unione, sacrificio, aiuto a crescere. Amore. E non c’è ombra di retorica».
Lei arrivò ragazzo e andò via uomo dopo 278 partite.
«Il primo giorno mi colpirono due cose: la straordinaria organizzazione e il senso d’appartenenza. La società era vicinissima alla squadra. Mi aveva voluto Lippi, mio allenatore nella prima stagione all’Atalanta, ma oltre a lui, a seguirci, c’erano sempre proprietà e dirigenza: l’Avvocato Agnelli e il dottor Umberto venivano spesso al Comunale, Giraudo, Moggi e Bettega erano al campo tutti i giorni. Sentivamo il loro sostegno e c’era una straordinaria unità. Anche nello spogliatoio, non vedevamo l’ora di ritrovarci per i ritiri perché stavamo bene insieme al di là del calcio».
(...)
«Cento anni di proprietà rappresentano qualcosa di unico. Personalmente non riesco a immaginare la Juventus senza gli Agnelli».
Andrea, l’ultimo presidente della Famiglia, la indicava come suo calciatore preferito.
(sorride) «Capisce poco di calcio».
Ricordi?
«L’ho conosciuto adolescente, stava spesso con la squadra. E da presidente, mi ha riportato alla Juventus dopo diciassette anni: per me è stato tornare a casa, un’emozione indescrivibile».
La chiamò lui?
«No, Pesso. La prima telefonata in realtà non fu per me, ma per mio figlio (Alfonso, difensore centrale nell’Under 17): giocava nel Defensor, lo volle in bianconero. La seconda, dopo una settimana, fu per offrirmi la panchina della Primavera».
A proposito di telefonate, l’Avvocato chiamava anche lei all’alba?
«Sì, e non dimenticherò mai la prima volta: mio padre, e al secondo tentativo io, staccammo la comunicazione pensando a uno scherzo. Immaginate come mi sentii quando scoprii che era davvero lui».
A distanza di anni, è storia o leggenda la battuta dopo il pugno all’interista Di Biagio?
paolo montero pugno a di biagio
«Verità. “Paolo - mi disse al campo - non mi sei piaciuto per niente”. Io mi preoccupai, immaginavo già la predica, invece aggiunse: “Non l’hai preso bene: un bravo pugile con un gancio così l’avrebbe fatto cadere”».
Il duro Montero: è cambiato con gli anni?
«Sono cresciuto, mi controllo, ma lo spirito resta quello».
Un aneddoto sul Dottor Umberto?
«Una battuta. Ero stato espulso a Lecce e alla ripresa degli allenamenti mi disse che così non perdevo l’abitudine».
Anche Elkann ha conosciuto da ragazzo?
«Poco, lui è come me: riservato. Ho conosciuto meglio Lapo, carattere ben diverso».
La Juventus ha allargato la sala dei trofei del J Museum…
«Spero debba ingrandirla sempre di più. E spero che ospiti presto la terza Champions. L’ho solo sfiorata, la vogliamo tutti noi tifosi».
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