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Emanuele Gamba per “la Repubblica”
In Italia abitano suppergiù sessanta milioni di persone, ma una soltanto ieri stava a guardarsi la cerimonia di consegna del Pallone d’oro immaginando prima o poi di esserci, di avere il diritto di sognare di esserci. Diritto che d’altronde gli è già stato in qualche modo riconosciuto, visto che Paul Pogba è stato l’unico calciatore del campionato italiano inserito nella lista dei trenta candidati.
Era anche il più giovane di loro, lui sa e pensa che sia solamente questione di tempo, perché l’ambizione la va ripetendo da anni: «Voglio di diventare il più forte giocatore del mondo. Non uno dei più forti, ma il più forte. E vincere il Pallone d’oro». Ci sono dei momenti in cui accredita questa aspettativa: la rete segnata l’altra sera al San Paolo, per esempio ha ricordato, a molti e per molti versi, quella che Zidane segnò al Bayer Leverkusen nella finale di Champions del 2002.
Zidane, Pogba: c’è una specie di filo logico che li collega, ci sono le origini africane (algerine Zizou, guineane Paul), c’è il fisico imponente che apparentemente negherebbe certe delicatezze stilistiche, c’è il passaggio alla Juve (anche Zidane arrivò per poco, 7,5 miliardi di lire al Bordeaux) risolto poi con una cessione per una cifra smisuratamente grande (150 miliardi dal Real Madrid), che consentì alla fine di costruire una squadra smisuratamente forte (Buffon è ancora lì a dimostrarlo) come senz’altro capiterà a Pogba.
Raiola, il suo manager, potrebbe camparci per tre generazioni, se riuscirà a piazzarlo alle cifre che già circolano, 77 milioni (li offrirebbe il Manchester, secondo il Daily Express) o addirittura 90, laddove si spingerebbe il Psg. Marotta non si dispererà neanche un attimo, come Moggi all’epoca: prenderà il grano e comprerà tre campioni da trenta milioni. E magari nel frattempo scoprirà un altro Pogba. Quando accadrà? Forse non subito, magari nel 2016. Ma di più, Pogba in Italia non durerà. Il Pallone d’oro lo alzerà sotto un’altra bandiera. E la Juve sarà più forte senza di lui che con lui, come accadde quando se ne andò Zidane.
Poi ci sono delle volte in cui Pogba torna il ragazzino che è, lontanissimo ancora da infilarsi lo smoking e ritirare un premio dopo l’altro. «Può e deve fare meglio » ha ripetuto anche domenica sera Allegri, cui talora fanno rabbia i momenti in cui il ragazzo spreca il talento, o ci si specchia dentro: al San Paolo a un certo punto l’allenatore lo ha quasi strattonato, perché aveva sbagliato uno stop nei pressi della linea laterale per volerlo fare troppo elegante e poi, anziché rimettersi a correre appresso a qualche avversario, ha perso tempo a maledire quell’errore così spregiudicato, e Allegri ha dovuto rimetterlo in moto con uno spintone.
E poco più tardi l’ha sostituito, perché mai come quest’anno Pogba sta raggiungendo vette di classe mirabili e dormicchiando in momenti di vuoto insopportabili. Domenica, per la verità, lo raccontavano un po’ nervoso, anzi triste: difatti quando ha segnato ha puntato le dita al cielo molto più a lungo di quanto faccia di solito, perché aveva l’anima scossa.
Agli amici ha raccontato di essere rimasto turbato da quello che è successo in Francia (lui, oltretutto, è musulmano), ma anche da due recentissime morti che l’hanno segnato: quella per un incidente d’auto del suo coetaneo belga Junior Malanda (il centrocampista del Wolfsburg era definito il nuovo Pogba) e quella per malattia di Evan, ragazzino di Milano che aveva conosciuto qualche settimana fa. Aveva un tumore, e il desiderio di conoscere Paul. Pochi giorni dopo aver realizzato quel sogno, il cancro ha vinto. Il gol di domenica era per lui, mica per il Pallone d’oro.
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