DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Antonio Riello per Dagospia
Michael Craig-Martin e’ sulla breccia da circa sessant’anni, e non sembra perdere colpi. Nato nel 1941 in Irlanda, passa la giovinezza e fa i suoi studi negli USA. Approda a Londra nel 1966, dove ancora vive e lavora (puo’ fregiarsi del “Sir” davanti al nome, Elisabetta II lo aveva nominato CBE). La mostra che gli dedica la Royal Academy - curata da Axel Rüger con Sylvie Broussine e Colm Guo-Lin Peare - riassume e approfondisce tutti gli stadi della sua lunga carriera. L’allestimento e’ davvero molto ben riuscito: piacevole, chiaro e avvincente. All’esterno una serie di sculture colorate dell’artista accoglie i visitatori.
Craig-Martin e’ un artista che ha esplorato l’Arte Concettuale, in Minimalismo e la Pop Art (soprattutto nell’accezione britannica che fa capo a Patrick Caulfield). O meglio: ha ri-visitato tutti e tre i movimenti traducendoli in una sintesi personale di un certo successo.
mostra di michael craig martin 4
Nella seconda meta’ degli anni ‘60 inizia un breve ma intenso percorso di ricerca concettuale che lo porta alla realizzazione di opere come “An Oak Tree” (1973), quasi duchampiana nella sua sfacciata semplicita’. “On the Table” (1970) e’ invece una imponente installazione con (possibili) rimandi a certe atmosfere dell’Arte Povera: un tavolo in legno rimane precariamente sospeso grazie al contrappeso di 4 secchi metallici pieni di acqua.
Segue il momento dei muri decorati con l’uso di linee fatte con nastro adesivo. Grandi disegni essenziali: solo le linee dei bordi degli oggetti rappresentati sono visibili, il resto va immaginato. Forse un riferimento potrebbero essere i celebri interventi murali di Sol LeWitt. Grafica e minimalismo vanno qui felicemente a braccetto. “Interlocked” (1990) ne e’ un valido esempio.
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Craig-Martin inizia a questo punto il suo maniacale e appassionato sodalizio con la sublime banalita’ degli oggetti. Si passa ad una pittura che recupera decisamente atmosfere Pop. Colori accesi, oggetti semplici e quotidiani trasformati in intelligenti icone. La parte piu’ conosciuta del suo lavoro. Innegabile: immagini molto seducenti e graficamente eleganti. Collegamenti colti (la sedia Bercelona di Mies van der Rohe e l’orinatoio, “Fountain”, di Duchamp) assieme a umili articoli industriali (cavatappi, lampadine, estintori, vasi, manette, siringhe, scarpe, cassettine da registratore, etc. etc.). Ci si sente - e’ il caso di dirlo - un po’ coccolati in un mondo retro’ ancora sostanzialmente analogico.
Alcune variazioni sul tema associano lettere e parole a questo tipo di immagini. Altre ricreano capolavori della Storia dell’Arte con la stessa tecnica Graphic-Pop (la sua versione a colori piatti e intensi del dipinto “Las Maninas” di Velazquez e’ difficile da dimenticare). Ce n’e’ per tutti i gusti. Si passa poi ad alcune evoluzioni tecniche appositamente realizzate per la mostra: un grande e bel video che vede volare una miriade di oggetti e una serie di ritratti in movimento (tra cui spicca quello dell’architetto Zaha Hadid). Questi ultimi lavori pero’ sembrano molto simili a quelli (precedenti e anche piu’ noti) realizzati da Julian Opie.
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La sua e’ stata indubbiamente una figura molto influente per l’Arte Contemporanea britannica. Non solo per la sua pluridecennale ricerca ma anche per l’attivita’ di insegnante al Goldsmiths College, prestigiosa scuola d’Arte dove ha forgiato almeno due generazioni di artisti. Damien Hirst, Gary Hume, Sarah Lucas e Fiona Rae sono solo alcuni degli artiste/i che gli hanno pubblicamente attribuito il merito di averli formati. In questo contesto un paragone italiano potrebbe essere fatto con Alberto Garutti (scomparso di recente).
La mostra (che vanta, tra l’altro, un magnifico book-shop dove troneggia una T-shirt rossa irresistibile) ha ricevuto recensioni non sempre positive. L’artista e’ stato accusato di essere un po’ immobile (uguale: noioso) nel suo linguaggio. Forse talvolta si’, ma sta comunque a lui decidere come e cosa fare. Ma soprattutto appare, per certe frange assai radicali, troppo lontano dalle “obbligatorie emergenze” della cultura Woke. Prima di tutto questioni identitarie: e’ un maschio bianco. Inoltre il suo lavoro non afferisce direttamente alle varie confraternite dell’attivismo artistico-politico. Si occupa principalmente di espressione artistica. Fa il suo mestiere e basta (e farlo al suo livello non e’ comunque cosa da poco).
Sarebbe interessante capire se la scelta della Royal Academy di fargli un cosi’ importante tributo e’ solo il frutto di una sincera (e sicuramente meritata) ammirazione per il suo lavoro. Oppure c’entra un affettuoso inchino all’anzianita’ professionale di Craig-Martin. O se invece questo e’ anche il timido inizio, da parte della RA, del progressivo smarcarsi dalle esigenti intemperanze del Politically Correct piu’ estremo. Tutti e tre i fattori sono probabilmente in gioco. Da segnalare, in ogni caso, che la reputata galleria di Larry Gagosian - che adesso rappresenta questo bravo artista - e’ uno sponsor importante della mostra.
MICHAEL CRAIG-MARTIN
Royal Academy of Arts
Piccadilly W1J 0BD
Fino al 10 Dicembre 2024
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