DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Fiorella Minervino per La Stampa
nel settembre 1959 Piero Manzoni ed Enrico Castellani, due esploratori delle nuove frontiere artistiche, si unirono per dare vita a una rivista d’impostazione teorica e sperimentazione radicale, Azimuth. La pubblicazione (che doveva chiamarsi Pragma) uscì per due soli numeri e venne ben presto affiancata dalla galleria Azimut (nel lettering privata della h) in un seminterrato del centro di Milano messo a disposizione dall’architetto Franco Buzzi.
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L’avventura durò in tutto 11 mesi, ma ebbe la forza d’un terremoto, costituì un laboratorio tale da trasformare la ricerca italiana Anni Sessanta nel concettuale e nella cultura visiva. Inoltre si confrontò in un fitto dialogo con esponenti delle avanguardie europee e americane. L’obiettivo manifesto era dare l’avvio a «una nuova concezione artistica» che muoveva sul duplice binario di «continuità» e «nuovo».
Nei due numeri gli autori, i giovanissimi Piero Manzoni (1933-63) ed Enrico Castellani (1930) scrissero i testi accanto a personaggi come Francis Picabia, Kurt Schwitters, Gillo Dorfles, Guido Ballo, Tati Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e altri. Al solo Lucio Fontana furono dedicate due intere pagine monografiche, in una stagione e in una città, la Milano del «miracolo economico», oscillanti tra Arte Nucleare e Spazialismo. Vennero pubblicate opere di Rauschenberg, Yves Klein, Jasper Johns, Tinguely, Vasarely, Burri, Rotella, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Dorazio, Franco Angeli, Sergio Dangelo, e altri.
Inutile dire che oggi alcuni scritti suonano profetici, come incuriosisce l’elenco delle rassegne in galleria, oltre le monografiche dei due protagonisti: Gianni Colombo, Bonalumi, Dadamaino, Enzo Mari, Manfredo Massironi, Biasi e altri. Questo progetto fulmineo e dirompente ritorna in una mostra alla Guggenheim di Venezia. Il curatore Luca Massimo Barbero è partito dalle opere pubblicate dalla rivista o esposte dalla galleria, ne ha riproposte 77 in sei sale che offrono un percorso vorticoso, sovente nel segno del monocromo, fra audacia e irriverenza, fra materiali inconsueti e «oggetti contenitori», un viaggio nel tempo dove non mancano né le scatolette della Merda d’artista di Manzoni, né il suo Fiato d’artista o i diversi Achrome, oltre la sua Impronta pollice sinistro che è simbolo e manifesto dell’evento alla Guggenheim.
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Ci si sofferma davanti alle possenti tele sagomate, dalle superfici a rilievo , pronte a muoversi ed espandersi di Castellani, come più in là di fronte a Bonalumi, compare poi Robert Rauschenberg e irrompe Jasper Johns con le lattine di birra, i bersagli, i numeri, Mimmo Rotella con le scatolette di olio Shell per Diesel, e si cammina fra la spugna blu di Klein, i chiodi di Uecker.
Ci sono alcuni importanti Fontana, Dadamaino figura con lavori come Volume e moduli sfasati; né mancano i molti documenti storici, cataloghi e inviti disegnati dagli artisti: per la Mostra-azione di Piero Manzoni, il 21 luglio 1960, nell’invito si legge «La S.V. è’ invitata.. a visitare e a collaborare direttamente alla consumazione delle opere esposte di Piero Manzoni»: era questa l’ultima personale a conclusione dell’esperienza.
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