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Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Mancano tre minuti e solo un pazzo anarchico può sfregiare la tela. Simone Zaza. Talento esplosivo, lungo quasi un metro e novanta, come il sinistro che molla improvviso carico di effetto, dieci palloni in uno, un prisma, mentre la mano di Reina è solo una, quella. Zaza in panca è una delle prime cinque bestemmie calcistiche del pianeta. L’anno alla Juve ha trasformato anche lui, prima un po’ balengo, in una belva. Per me, sempre detto, uno dei più grandi.
Quindicesima vittoria consecutiva e sorpasso, in fondo a una rimonta da fantascienza. Era un pareggio sputato. Ma il calcio ha le sue botte da matto e i suoi Zaza. Juventus e Napoli avevano fin lì deciso che la certezza di non farsi del male era preferibile all’incertezza di farsi del male e non sapere a chi tocca. Chi si aspettava sangue e furore, trovava invece due scolaresche rispettose, che si studiavano con la patta abbottonata, sapendo che il pugnale all’arsenico può scattare in qualunque momento da quella patta e pari. Era, sembrava, lo zero della paura.
Autorizzati a delirare, gli allenatori possono raccontarsi quello che vogliono e Sarri sentirsi dire che “andiamo a Torino per imporre il nostro gioco con lucida follia”. Nessuna follia. Di lucida solo la pelata di Zaza. Bastava. Partita implacabilmente racchia per quasi novanta minuti, sicché molti se ne andavano per tempo a Sanremo dalla bombastica romena e invece trovano Cristina D’Avena che canta la canzone dei Puffi. Serata tragica.
Lo Stadium sa che deve giocare da dodicesimo. Lo fa. Trasforma i crampi in tamburi. Nessun napoletano a iettare l’apoteosi e l’ipotesi bianconera. C’è anche qualcosa di giallorosso in campo, la cresta di Pogba. Mica poco.
Primo tempo dove non succede nulla o quasi, un paio di palloni loffi da lunga distanza della Juve e un paio di tagli da destra ben più minacciosi del Napoli, a cercare Higuain. Nel primo, Bonucci, quasi squartandosi, ci mette l’unghia dello scarpino e libera. Ora, gli allenatori e gli anni passano, Conte e poi Allegri, corti e lunghi, biondi e scuri, salentini e maremmani, ma chiedetegli tutto, di fare a meno di Tevez, Pogba o Dybala, persino a Buffon, ma non chiedetegli di rinunciare a Bonucci e Chiellini. “Piuttosto, mi taglio le vene”, ti dicono. Già senza Chiello, quando Bonucci prende una botta da paura, Allegri quasi sviene. “Lo faccio giocare anche monco”, gli leggo il labiale. E, invece, quello incassa il dolore, riparte e salva. Ma solo per un tempo.
A inizio ripresa deve mollare. Resta Barzagli, l’ultimo mohicano. Higuain continua a stare sommerso, mai trovato anche perché introvabile. Non tira mai in porta. L’altro di là, Omar Dybala, si fa vivo solo dopo sessantadue minuti, ma quasi è letale. Di là, solo la botta da fuori di Hamsik. Migliore in campo? Pogba. Fino a che l’Anarchico Lucano non strappava quello stupido copione. Siamo sicuri che a Monaco dormono sonni tranquilli?
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