DAGOREPORT - PER RISOLVERE LA FACCENDA ALMASRI ERA SUFFICIENTE METTERE SUBITO IL SEGRETO DI STATO E…
Silvia Nani per corriere.it
La Maxi Yacht Rolex Cup non è la Coppa America. Ma nemmeno Paul Cayard è più lo stesso di quegli anni. Eppure, a guardarlo timonare, osservarlo mentre dà istruzioni allo skipper «ufficiale» di Alix, lo Swan di 90 piedi che scivola sulle acque increspate al largo di Porto Cervo, avvicinandosi al campo di regata, il piglio di allora emerge pressoché intatto.
Di primo acchito si potrebbe definire un signore atletico con qualche segno del tempo, del sole e della salsedine; in realtà la grinta è identica a quella di allora. Solo che oggi è indirizzata ad attività più tranquille (come la partecipazione in qualità di testimonial di Rolex a questa regata di cui, quest’anno, ricorre il trentennale) e a molte altre, tutte però legate alla vela.
Un momento della Maxi Yacht Rolex CupUn momento della Maxi Yacht Rolex Cup
«Per me è stato però un cambio soprattutto di mentalità —, esordisce, sedendosi mentre Alix è ancorata in rada e l’equipaggio è alle prese con il pranzo —, anni fa le regate per me rappresentavano l’agonismo: ero sempre a caccia della vittoria e di un premio in più da conquistare. Oggi voglio divertirmi e navigare con gli amici o in occasioni come queste». Quale è quindi la «seconda vita» di un ex campione come lui? «Sono coinvolto nel board del team olimpico degli Usa e presiedo il St. Francis Yacht Club di San Francisco, con un ruolo organizzativo e gestionale: 120 dipendenti, una vera e propria azienda, e, in più, servono sponsor, si lavora sulle strategie. Insomma, è un lavoro simile a quello che facevo per la Coppa America», spiega.
Lo spartiacque è stato il 2013, racconta: «La mia ultima Coppa. Mi sentivo bruciato, e ho voluto dire basta. Oggi però sono pronto a tenere viva quell’esperienza, trasferendola in questa attività manageriale ma anche nel formare i ragazzi e fare team building, insegnando che la vela è una metafora della vita: il vento gira e devi essere pronto, e non frustrato. Sapersi adeguare al cambiamento è l’insegnamento più importante che ho tratto anch’io».
E racconta della sua vita personale, del divorzio («Nessuno di noi due l’avevamesso in conto, accettare la sconfitta è stato difficile»), di una relazione lunga ma finita anch’essa e sfociata oggi in una terza: «Dopo la delusione, ho voluto cambiare approccio. E oggi penso che aver condiviso con tre donne eccezionali una parte della vita, l’abbia resa più ricca». Raul Gardini, quasi un secondo padre: «Lo conobbi a San Francisco e qualche anno dopo ero già con lui in Italia. Era il 1989. Raul aveva l’età di mio padre, io ero solo (la mia famiglia era rimasta a San Diego). Lui nel fine settimana mi portava a navigare, mi invitava a casa sua.
Trattandomi come un figlio ma dandomi la responsabilità del suo team», ricorda. Quello che esce dal suo racconto è un Gardini appassionato, visionario, aperto al futuro: «Amava la giovinezza: il team del “Moro” lo era, come il gruppo a cui affidò il cantiere Tencara dove iniziò a costruire le barche usando la fibra di carbonio. Aveva in mente di creare persino dei mobili e iniziò con la sua scrivania: di quel materiale gli piaceva moltissimo l’estetica. E amava le barche tecnologiche, pur essendo patito di vela classica».
Maniaco dei dettagli, della bellezza («Ricordo quando decise il logo del Moro di Venezia, il leone: ci lavorarono per mesi studi importanti ma non era convinto, e alla fine lo schizzò lui in due minuti»), deciso e generoso: «Alla nostra vittoria al Maxi World Championship a San Francisco, nel 1988, regalò un Rolex Submariner a tutto l’equipaggio.
A me poi diede un altro Rolex per la vittoria della Coppa America a Valencia: uno Yacht Master, allora era il primo ”orologio da regata”, e lui adorava il nuovo». Il passato per Paul Cayard è un capitolo chiuso, così come i baffi che lo resero famoso, rimpiazzati oggi da una leggera barba (brizzolata): «Nel 2011 ho deciso di tagliarli. Il commento di mia figlia è stato: “Papà, hai rovinato il tuo brand”. Invece sono stati l’emblema del cambiamento».
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